di Tennesse Williams (traduzione di Masolino D’Amico)
regia di Elio De Capitani
visto al Teatro Elfo Puccini _ 20 gennaio-1 febbraio 2015

New Orleans: nel giardino tropicale di una villa coloniale si aggirano figure impeccabili, abbigliate di bianco. La signora Violet, interpretata da Cristina Crippa, cerca di convincere un neurologo alle prime armi a lobotomizzare la nipote Catherine (una Elena Russo Arman non nuova a ruoli di fragile nevrotica) in cambio di una congrua donazione all’ospedale presso cui lavora. Sebastian, figlio di Violet, è morto in circostanze misteriose e Catherine è l’unica testimone.
Produzione del 2011, Improvvisamente l’estate scorsa è una delle quattro regie che il Teatro dell’Elfo ha dedicato al nume tutelare Williams, accanto a Un tram che si chiama desiderio (1994), lo Zoo di vetro (2001) La discesa di Orfeo (2012). Anche in questo caso De Capitani costruisce un clima claustrofobico e opprimente, che pare costantemente sul punto di esplodere: personaggi dalla psiche sempre al limite della patologia, una sensualità latente e incantata, un conflitto costante tra realtà e apparenza.

“Improvvisamente l’estate scorsa” è il ritornello che scandisce il progressivo disvelamento della verità da parte di Catherine; una verità che tanto la madre (Corinna Augustoni) quanto il fratello (Enzo Curcurù) vorrebbero tenere celata. Attraverso il dialogo-scontro fra Catherine e Violet, prende forma l’ambigua personalità di Sebastian – protagonista assente – legato alla madre da un rapporto edipico e vittima di una società perbenista che gli impedisce di vivere liberamente le proprie pulsioni omosessuali. Ma egli è, allo stesso tempo, un carnefice: approfitta della miseria di giovani che trae in inganno, e manipola abilmente le persone di cui si circonda. L’ipocrisia soffocante del Sud degli Stati Uniti, l’omosessualità vissuta come colpa e la malattia psichica rimandano al fondo autobiografico di questa commedia (ben presente anche ne Lo zoo di vetro).

Il potenziale eversivo della pièce è oggi ridotto (al debutto, nel 1958, il dramma ebbe problemi di censura, anche nella versione cinematografica diretta da Mankiewicz, con Liz Taylor e Katharine Hepburn); eppure lo scandaglio psicologico del drammaturgo sui personaggi resta di grande efficacia. La messa in scena è in equilibrio fra realismo e simbolismo: agli eleganti costumi di Ferdinando Bruni fanno da contraltare i suoni striduli di inquietanti uccelli esotici e le luci abbaglianti che sottolineano i momenti di maggior tensione emotiva. Nel decadente giardino-giungla (le scene di sono di Carlo Sala) campeggia una pianta carnivora, allusione alla macabra fine di Sebastian, ma anche metafora di una società cinica che costringe l’individuo in una gabbia di perbenismo e di vane apparenze.

Non sono pochi i punti di contatto con la tragedia classica: l’unità di luogo e azione, il conflitto dialettico fra due personaggi, la hybris punita, l’accentuarsi insopportabile della tensione che si scioglie nella catarsi finale. La stessa morte di Sebastian ha qualcosa di ineluttabile e ancestrale, che ricorda le Baccanti di Euripide da un lato e La saga della primavera di Stravinskij dall’altro. Niente è come appare anche e soprattutto in famiglia, in cui, fra pulsioni indicibili e rimosse, si compie una travagliata ricerca della verità che non è mai un dato definitivamente acquisito.

Simona Lomolino