Rafaële Giovanola, coreografa svizzera-tedesca, ha fondato nel 2000, insieme al drammaturgo Rainald Endraß, la compagnia CocoonDance: ha raccontato alla redazione le connessioni e le differenze presenti nei tre lavori (Hybridity, Standard e Chora) presentati in questa edizione di MILANoLTRE.
Il dialogo instaurato con i direttori artistici del festival Rino De Pace e Lorenzo Conti ha portato alla scelta di presentare a MILANoLTRE queste tre coreografie per offrire al pubblico uno spettro delle creazioni ideate dalla compagnia che fosse il più ampio possibile, mostrando quindi tre studi completamente diversi tra loro, e anche distanti temporalmente: Hybridity ha debuttato nel 2020, Standard nel 2021 e Chora nel 2023. Tra i primi due pezzi esiste un collegamento più evidente, entrambi infatti nascono da una ricerca incentrata sul movimento, frutto dell’incontro di pratiche analizzate e processate collettivamente.
In Hybridity, ad esempio, ho preso spunto da due pratiche in contrasto fra di loro e ho cercato di unirle, dando forma a corpi ibridi che hanno ricreato nella parte inferiore la postura e i movimenti della boxe thailandese, in quella superiore, invece, il balletto romantico, ispirato principalmente all’immaginario di Les Sylphides di Michel Fokine che è stato il mio insegnante di danza classica. La trasmissione dell’essenza e del portamento del balletto romantico a chi non ha mai conseguito una formazione classica avrebbe, normalmente, richiesto un tempo molto lungo di lavoro: per questo ho deciso di affidarmi all’aiuto di specialisti come Isabelle Fokine, nipote di Michel Fokine, esperta nella trasmissione del repertorio di suo nonno in giro per il mondo. Ci siamo molto divertite nell’ideare e nel progettare una modalità di insegnamento valida, ma allo stesso tempo malleabile ed efficace, chiedendoci, col sorriso, cosa avrebbe potuto pensare Michel Fokine di su questo progetto. Invece, per quanto riguarda la pratica della boxe thailandese, abbiamo coinvolto alcuni grandi campioni di muay thai che hanno insegnato le loro pratiche ai performer. È stato interessante vedere come, alla fine di ogni giornata, i danzatori riuscivano a trovare sempre più punti di contatto tra le due tecniche, non a caso, infatti, sia il balletto che la boxe sono due pratiche estremamente rigorose e anche molto antiche. Piano piano è aumentata la tensione inscritta nella coreografica, rivolta verso un pericolo invisibile incombente, associabile alla pandemia e a ciò che ha comportato.
Standard è invece uno studio ispirato alle Ballroom dance, è un pezzo completamente improvvisato il cui scopo è di far sì che due corpi simili tra loro diventino progressivamente uno solo, tentando di creare un’improvvisazione a quattro gambe. Abbiamo lavorato molto sul movimento innestato a partire dall’utilizzo della colonna vertebrale, fino ad arrivare a spostarsi stando sulle quattro zampe. Un’immagine sorprendente e molto interessante, nata appunto dagli stimoli offerti nel momento di improvvisazione. Inoltre, i danzatori in questa fase hanno anche dovuto imparare a percepirsi senza l’uso della vista, perché ovviamente impossibilitati dalla posizione, arrivando a prendere in considerazione solo il linguaggio corporeo della schiena di ciascuno, caratterizzata da una propria personalità, bellezza e possibilità narrativa.
L’ultimo dei tre pezzi presentati, Chora, si sviluppa invece a partire da presupposti diversi. Nasce da una lunga collezione, da parte dei performer, di diversi task da eseguire; inoltre il pubblico è chiamato a prendere parte alla creazione stessa, facendo nascere nello spettatore una forte curiosità e guadagnando così subito la sua attenzione. Per questa coreografia mi sono affidata a quattro danzatori della compagnia che ho scelto come co-autori. Dopo un ampio periodo di ricerca, abbiamo scelto di soffermarci solo su due task estrapolati dal nostro glossario. In seguito a una lunga fase di ricerca individuale, ci siamo riuniti e abbiamo messo insieme moltissimo materiale, che però si era rivelato non del tutto convincente e accattivante. Rimaneva sempre l’incognita relativa a ciò che sarebbe potuto succedere se quella stanza fosse rimasta vuota. Come si sarebbe comportato il pubblico? Immerso in uno spazio vuoto avrebbe usato l’appoggio delle pareti? Come possono essere utilizzate? Rainald Endraß ha allora pensato di concepire il lavoro come se fosse la resa scenica di un continuo sospiro di sollievo, capace di giungere sempre alla prossimità del momento di contatto senza però mai arrivarci davvero. Abbiamo quindi lavorato sulla creazione di un ecosistema in cui ogni aspetto ha la sua centralità, dove ogni possibile azione del pubblico diventa parte stessa della performance e non un ostacolo, un progetto che ha un ampio margine di incertezza e di cambiamento. Questo credo sia fondamentale quando ci si impegna in un atto di creazione: non deve mai mancare il desiderio di prendersi dei rischi, cercando di sondare anche le possibilità di una ricerca nuova, non scontata, che metta alla prova. Quando infatti mi capita di vedere lavori che non sono frutto di una ricerca ma di un’imitazione, una replica di qualcosa che ho già visto, non posso trovarlo interessante, né da realizzare né da osservare.
A cura di Laura Volta e Sara Pezzolo
in copertina: foto di @Thilo Beu
Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2024