In girum imus nocte et consumimur igni di Roberto Castello e dei suoi danzatori è un’ora di rincorsa continua, è un faticoso inseguimento di un ritmo a cui il corpo umano – anche quello più allenato – non può mai stare dietro fino in fondo. La scommessa, tanto per i danzatori quanto per gli spettatori, è resistere alla costrizione di uno schema sonoro e visivo dalle maglie strettissime. Il regolare scandirsi della musica elettronica è imperterrito, clamorosamente uguale per tutta l’ora dello spettacolo, anche se alle nostre orecchie non sembra: influenzati da ciò che vedono gli occhi, percepiamo una varietà di ritmi che invece non c’è. Il corpo dei danzatori – Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri e Ilenia Romano – prova a tenere il passo, insegue la ripetizione cercando la massima elasticità di piccoli movimenti ripetuti, ma non riesce mai davvero nel suo compito: i muscoli reagiscono alla convulsione reiterata imponendo giocoforza delle pause, opponendosi alla meccanica ripetizione elastica che è invece consentita alla tecnologia.
Sul palco del Teatro Mecenate di Arezzo, nell’ambito della rassegna Invito di Sosta, lo spettacolo di Roberto Castello arriva dopo quattro anni di tournée. La coreografia è un meccanismo kafkiano che non lascia scampo, instradato da polarità binarie da cui pare impossibile deviare: da una parte il battere e il levare di questa musica ipnotica, destinata a rimanere nelle orecchie anche dopo la fine dello spettacolo; dall’altra l’alternarsi continuo del buio e della luce, quel «dark» e quel «light» continuamente scanditi dalla voce metallica che ogni tanto osa sovrapporsi alla musica. I nostri occhi si devono abituare anche a questa oscillazione – e quasi giocano a indovinare dove ritroveremo i quattro danzatori quando, passato il buio, tornerà la luce.
Dopo il primo succedersi dell’oscurità più totale e della luce più diafana, appaiono quattro corpi stanti in una scena spoglia. Ancora dark; poi di nuovo light e i quattro danzatori non sono più fermi: il loro collo per primo si è scardinato dall’immobilità, dando il via a una metodica esplorazione dell’elasticità del corpo, sempre comunque ingabbiata dai ferrei dettami della musica. Cominciano così a susseguirsi convulsi momenti di luce, quadri separati in cui i danzatori si mettono alla prova in movimenti ogni volta diversi. Non c’è lo svolgersi di una storia, non c’è traccia di personaggi; al centro solo l’indagine di un corpo in movimento che insegue un suono – e l’inevitabile sensazione che la regolarità di quel suono sia infine mai davvero raggiungibile: una tartaruga zenoniana sempre più veloce di noi. La musica è così invadente da non lasciare scampo: i danzatori sono prigionieri del ritmo e viene da pensare che i loro non siano corpi che si muovono ma corpi mossi, da altri decisi. Assume ancora più forza, allora, l’enigmatico titolo palindromo scelto da Castello, in cui il verbo più forte è significativamente al passivo – quel «siamo consumati» che riflette tanto la tragicità quanto l’inevitabilità di un’azione che finisce per esaurirsi in uno stato.
La sensazione di costrizione è accentuata da un altro prepotente elemento, questa volta tutto visivo: sul nero del fondale scenico, a interrompere i momenti di buio sono proiezioni geometriche luminose, scabre ma determinanti. Linee di luce definiscono ora i profili di una stanza, ora quattro rettangoli sono altrettanti piccoli spazi che inquadrano i danzatori; ora appare un singolo fascio divisorio verticale, ora un’ampia banda taglia orizzontalmente la visuale. Nella seconda parte dello spettacolo la videoproiezione si fa ancora più invadente. D’improvviso compare sullo sfondo una fitta maglia di sottili righe orizzontali e i danzatori, lì davanti, sembrano incagliati come note su un pentagramma.
Ogni tanto bussa la speranza: che questo schema possa esplodere, che un movimento nuovo possa nascere e che una nuova melodia possa invadere il teatro. Le vesti nere si spostano a scoprire inattesi lembi di pelle, i quattro corpi si toccano, addirittura si uniscono formando coppie che per un attimo sembrano riuscire a vincere la regolarità della ripetizione con un gesto liberatorio e non imposto: né dalla musica, né dalle proiezioni, né dai corpi altrui. Altre volte ancora, quando la fine si avvicina – e lo sappiamo perché su questo palco eterodiretto è la solita voce esterna a dirci the end is near – li vediamo correre, saltare, inseguirsi, annusarsi, mordere l’aria: per una volta, al di fuori da ogni schema, i loro respiri appesantiti dalla fatica sembrano vincere sulla musica, imponendosi più forti alle nostre orecchie.
Era solo un’illusione, però: basta un dark e i danzatori tornano automi. Dobbiamo rassegnarci a vederli così, a ricordarceli in fila indiana, l’uno a inseguire l’altro: è la stessa nostra corsa, che pur costringendoci a passi veloci sembra farci ristagnare sempre sullo stesso quadratino del palco, proprio come accade ai quattro danzatori. Ogni tanto uno di loro prova a scardinare la fila indiana e a sorpassare chi gli corre davanti, ma è un tentativo vano: ci sarà sempre qualcuno più avanti, impegnato tanto quanto noi ad adattarsi a un ritmo imposto dall’alto. Forse ci rivediamo nei loro saturnini volti alla Goya e nelle braccia che cadono al suolo abbandonate, secondo la riconoscibile pathosformel del corpo di Cristo deposto.
Infine, inaspettatamente, torna una seconda volta il monito, questa volta più veritiero: la fine è vicina. Non lo decidiamo noi, ma semplicemente arriva. Cessa la musica, ma il respiro dei danzatori sul palco è ancora a tempo col ritmo appena svanito; quando si chiude il sipario, anche la mia gamba sta ancora tenendo il tempo – ed è fin troppo facile pensare che non sia finito niente, che siamo anche noi consumati dal fuoco.
Virginia Magnaghi
IN GIRUM IMUS NOCTE ET CONSUMIMUR IGNI
coreografia di Roberto Castello in collaborazione con la compagnia
interpreti: Mariano Nieddu, Stefano Questorio, Giselda Ranieri, Ilenia Romano
assistente: Alessandra Moretti
luci, musica e costumi: Roberto Castello
costumi: Sartoria Fiorentina e Csilla Evinger
produzione: ALDES
con il sostegno di MiBAC, Direzione generale per lo spettacolo dal vivo e Regione Toscana Sistema Regionale dello Spettacolo
foto di Cristiana Rubbio
Visto al Teatro Mecenate di Arezzo_ dicembre 2019
Contenuto pubblicato nell’ambito del workshop di scrittura critica a cura di Stratagemmi e Teatro e Critica, in occasione di Invito di Sosta 2019, rassegna curata dall’Associazione Sosta Palmizi.