Freud sostiene che all’origine del processo di incivilimento – fatale, secondo questa prospettiva, per le libertà istintuali dell’individuo – ci sarebbe proprio il sollevarsi da terra e l’acquisizione della postura eretta: l’alzarsi e l’allinearsi alla verticalità della propria colonna vertebrale, il predisporre tutti gli organi e apparati a questa perpendicolarità stabile. Per tutta la longeva tradizione filosofica “occidentale”, che affonda le radici nell’antica Grecia di Parmenide, il paradigma della postura umana si allineava all’idea di rectitudo e di recta ratio, allergiche agli smarrimenti e deviazioni dalla retta via tracciata. Kant, per esempio, è convinto di trovare tutta la dignità dell’uomo nel suo saper essere piedistallo di sé stesso, libero e completamente autonomo, non appoggiato e non sorretto da nulla. Accanto a questa idea di rettitudine razionale, la perpendicolarità verticale viene da sempre contrassegnata anche come paradigma esemplare della virilità e della logica fallocentrica che sembrerebbero essere connesse e non dissociabili dall’Ego di ogni soggetto.
In uno scritto del 1928, commento al romanzo di un misterioso “Mr. A”, Virginia Woolf sottolinea indispettita l’insistenza sui fogli del collega della “straight dark bar”, inequivocabile linea retta ben visibile sulla pagina, disegnata dal pronome personale inglese “I”. Woolf fa notare che l’egocentrismo della postura perfettamente eretta è così ben radicato nel soggetto da averne condizionato persino la grafia del pronome, tanto da farlo sembrare «un faggio gigante, sotto il quale non cresce nulla». Un io così verticale tende al gigantismo delle proprie proporzioni in una naturale corsa competitiva, come quella delle piante, verso la luce e il sole. Ma «l’uomo non è un albero e l’umanità non è una foresta», dice Lévinas in Difficile libertà. Come addolcire le forme delle nostre colonne scheletriche?
Adriana Cavarero, nel suo testo Inclinazioni: critica alla rettitudine (Raffaello Cortina Editore, 2013), sostiene che a diversi paradigmi posturali corrispondono differenti modelli della soggettività. La postura eretta della logica fallocentrica incarna il “modello individualista” dell’egocentrismo verticale, di cui Cavarero avanza la decostruzione all’interno del testo, confrontandolo con il “modello relazionale”. La postura ego-centrata vuole essere sostituita da altre inclinazioni posturali, assunte da tutte quelle prospettive che abbracciano i momenti di esposizione, vulnerabilità e dipendenza per spiegare la propria idea di relazione intersoggettiva. Il “modello relazionale”, al contrario di quello individualista, condensa tutta la dignità del soggetto proprio nel suo essere esposto e disposto verso l’altro, nella sua naturale predisposizione a tessere molteplici relazioni di cui non potrebbe fare a meno. La postura inclinata del modello relazionale destabilizza l’isolamento e la rigidità dell’“io” abituato alla verticalità in sé stesso, dirigendo le sue attenzioni e le sue cure verso l’altro. L’inclinazione permette di entrare in contatto con altri esponendosi fino alle reciproche vulnerabilità che solo così possono essere condivise e insieme curate. Cavarero risveglia l’attenzione sulle geometrie posturali nel nucleo delle nostre comunità, esortandoci a un’interrogazione che suona senz’altro attuale nei tempi del necessario distanziamento. Come chiedere alle nostre vertebre la gentilezza delle mobilità sinuose e dinamiche per non rimanere inchiodati nelle distanze? Quali luoghi possiamo pensare per esercitare le nostre posture? Ma soprattutto, a chi chiedere di sperimentare nuove possibili e sempre rinnovabili geometrie?
Anche per Judith Butler, in L’alleanza dei corpi (Nottetempo editore, 2017), non è possibile immaginare la vita di un singolo corpo senza considerare l’intreccio che lo lega a tutte le altre vite: «la propria vita è anche la vita degli altri». Proprio questa dimensione sociale ed interdipendente dei corpi costituisce la loro stessa vulnerabilità in quanto «i corpi non sono entità chiuse in sé stesse, ma sono sempre, in certo modo, fuori di sé», completamente esposti tra loro. Possiamo così immaginare “le alleanze dei corpi”, che nascono in ogni esercizio performativo e politicamente condiviso, come intrecci di corpi inclinati, oscillanti, pendenti, allacciati e appoggiati tra loro, sorretti da altri corpi e a loro volta sostegno per altri ancora. Le alleanze sincere non si possono stringere senza sporgersi “al di fuori”, bisogna mettersi in gioco e sfidare lo squilibrio delle inclinazioni. Ma le posture vanno allenate e nutrite, gli si deve dedicare tempo e spazio, abituarle all’ascolto e all’incontro. Per questo si deve avere fiducia nei corpi e nella capacità performativa che nasce dal sapersi completamente esposti sotto lo sguardo dell’altro, con tutta quanta la propria precarietà. Perché solo il corpo che espone liberamente la propria vulnerabilità riconosce l’esigenza sincera di sporgersi fuori di sé, per cercare sempre negli altri nuovi approdi e nuove possibili alleanze.
Silvia Galletti
Questo contenuto fa parte dell’osservatorio critico Raccontare le Alleanze