Fino a quando potranno protrarsi i miei tentativi? Quando avrò pace? Sono le domande che sembra farsi Martina Gambardella e, insieme a lei, chi guarda Error#1. La figura della danzatrice e coreografa, vestita di blu, utilizza l’intero spazio del palco per prodursi, come suggerisce il titolo, in continui error di forma che, non trovando una soluzione, la costringono a una ricerca infinita.

Sulle note di una musica lontana, che all’inizio ricorda il rumore di un insetto, i suoi sforzi sembrano compiersi per entrare in una fessura: qualcosa di stretto a cui però le continue fughe a lato delle braccia, sospinte verso l’alto e verso l’esterno, negano l’accesso. I tentativi di aderire a questa spaccatura invisibile iniziano spesso dalle mani: un movimento aereo che taglia l’aria ed esercita dei piccoli lanci: come se Gambardella stesse gettando sassolini leggeri che costringono il gesto a estendersi fino alle dita in uno scrollarsi generale che sembra un tentativo di liberarsi dei continui errori. Il blu del costume richiama qualcosa di marino, quasi come se l’ingresso nella fessura fosse lecito solo nel nuoto. Immergendosi e poi riemergendo, di errore in errore, Gambardella naviga in questa fessura come in un flusso interminabile, che però non risulta mai ripetitivo, in una materia liquida sempre permeabile e che sempre si rigenera. Guardandola, marina e allo stesso tempo aerea, pronta a rendersi malleabile  in ogni sua parte, sembra che la sua sensibilità vigile possa cogliere i minimi spostamenti, gli umori di ogni spettatore pur tenendosi a debita distanza.

Cosa che non accade con Idillio di Lorenzo Morandini, dove a consumarsi con la platea è un vero e proprio dialogo. Con l’indice Morandini cerca lo spettatore, gli fa segno di raggiungerlo. È un tentativo disperato di farsi accettare, di cercare compagnia. È un attimo che dura giusto il tempo in cui il desiderio dell’altro è ineludibile; poi subentra il timore e la paura di non essere preparati all’incontro: ed eccolo fermarsi col palmo aperto. Così anche la danza risente di questa “malattia” di intenzioni sdoppiate: si libera sulla musica ecclesiastica del Santo, e poi continua anche quando la musica si ferma, ma ormai in automatico. Un grido inascoltato e autonomo.

In Eigengrau di Giorgia Fusari la relazione con l’altro è la meta di un percorso complesso: le direzioni delle tre danzatrici in scena sembrano non trovare mai coincidenza. Le tre si muovono lungo delle linee rette, si colpiscono, e cercano forse di prevalere una sull’altra di fronte al pubblico. Non trovano una vera adesione finché finalmente si guardano, si toccano, si scambiano i posti in un cerchio ridotto, reso dinamico dai loro movimenti veloci. Una riconciliazione che sa di vittoria.

Arianna Granello

(ph: Sara Meliti)


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