La mattina dopo la penultima replica di Aiace al Teatro Greco di Siracusa, colto da quell’irrefrenabile desiderio di un milanese in terra siciliana, non ho resistito alla spiaggia e al primo bagno della stagione. La stessa (ottima) decisione è stata presa da una nutrita parte del gruppo di lavoro dello spettacolo che, giunto sul litorale alla spicciolata, si è casualmente stanziato davanti a me. Al suo arrivo, Michele Nani, uno splendido Menelao, brandiva in aria un quotidiano, annunciando: «È uscita una critica!». A questo richiamo, la compagnia si è radunata tutta attorno all’attore, in cerchio, pronta ad ascoltare la declamazione dell’articolo che parlava di loro. M’è parso di trovarmi di fronte a un raccoglimento quasi carbonaro, di ragionamento e condivisione di pensiero. Mi ha commosso sbirciare questo dietro-le-quinte in cui, nel fermento generale e con un po’ di vera apprensione, ci si riunisce e si prende del tempo insieme, anche di goliardia, per leggere una riflessione e far risuonare quell’evento che non s’esaurisce mai davvero con gli applausi.
In effetti, questo episodio, fortuito e inatteso, è riuscito più delle due tragedie in cartellone quest’anno al Festival INDA a smuovermi qualche emozione. La 59° stagione siracusana ruota attorno al concept di “Passioni e illusioni”, scegliendo tra i titoli tragici Aiace di Sofocle, con la regia di Luca Micheletti e la traduzione di Walter Lapini, e Ippolito portatore di corona di Euripide, firmato dallo scozzese Paul Curran con la traduzione di Nicola Crocetti. Questa seconda tragedia è presentata come Fedra, lasciando la denominazione originale tra parentesi: si tratta di un titolo “pubblicitario” più riconoscibile e immediato, che rende la vicenda facilmente identificabile con il suo personaggio più noto. Lo stesso avvenne già nel 2010, in occasione della precedente rappresentazione dell’opera, con la sublime e intricata traduzione di Edoardo Sanguineti – ultimo lavoro della sua vita – e la regia di Carmelo Rifici. Ma la messinscena delle passioni dirompenti di questi eroi tragici – quella amorosa di Fedra, quella intransigente di Ippolito, quella carica di onore e gloria per Aiace – catapultano le rappresentazioni classiche dell’edizione 2024 del festival ben distanti da un vivo spirito di sperimentazione e di approdo al contemporaneo che pure si era respirato negli ultimi tempi. Il Teatro Greco di Siracusa, spazio di tradizione per eccellenza, si stava infatti definendo come un buon banco di prova popolare per la rappresentazione e l’interpretazione odierne dell’antico. La sensazione, però, prima di scendere nel dettaglio degli spettacoli, è che le questioni politiche non abbiano agevolato quelle artistiche dal momento che l’Istituto Nazionale del Dramma Antico, ad oggi, non ha un sovrintendente. Dopo meno di un anno dal suo insediamento, nel febbraio 2024, la Sovrintendente Valeria Told, nominata su firma del Ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, si è dimessa, ufficialmente per una controversia insanabile sul suo contratto; è rimasta la consigliera delegata Marina Valensise, che proprio nel momento centrale della produzione degli spettacoli si è trovata ad assumerne le funzioni ad interim, in attesa del nuovo percorso di selezione per l’incarico apicale. È quindi una fase di gestione delicata per INDA che, in una certa misura, potrebbe aver lasciato spazio a ulteriori difficoltà nella realizzazione finale degli spettacoli.
Partiamo allora da Aiace. Luca Micheletti, bresciano, classe 1985, attore, regista, cantante lirico (baritono), dottore di ricerca in italianistica, è chiamato a dirigere il dramma sofocleo sull’amara ingiustizia e la conseguente follia che subisce il più grande guerriero dell’esercito acheo, privato da Odisseo delle armi di Achille che per il suo valore gli spetterebbero. Personaggio eclettico, Micheletti interpreta anche il protagonista in questo Aiace dai toni cupi e tetri, angosciosi e sanguinolenti. La scena, firmata da Nicolas Bovey, è completamente ricoperta da un telo insanguinato; è visibile solo la carcassa di un bovino fatta a brani, con un’asta conficcata nel costato. I costumi di Daniele Gelsi attingono a un immaginario quasi medievale: gli uomini indossano numerosi abiti sovrapposti, tutti di colore scuro tra il nero e il marrone, fatti di pelli e pellicce animali, e di reti. È proprio il continuo richiamo alla ferinità che pervade lo spettacolo: carrelli con bestie uccise e trafitte escono dal centro della scena coperta, come da una caverna, dall’antro-rifugio di Aiace; la belluinità diviene la cifra dei movimenti scenici, delle movenze degli attori, degli spargimenti di sangue, dei toni laceri e straziati della recitazione. Finché, si sa, Aiace si toglie la vita perché non riesce a sostenere l’onta subita, nonostante l’affetto della moglie Tecmessa (Diana Manea) e del figlioletto (in scena appare il vero figlio di Luca Micheletti, di poco più di un anno, che incede teneramente come chi sta imparando a camminare, incurante di ciò che avviene attorno a lui). La scena si disvela e giganteggia un teschio, con accanto lo scheletro di un costato, al centro del quale è conficcata una spada senza elsa. Risulta fin troppo chiara, al limite della didascalia, la scelta di rafforzare agli occhi degli spettatori ciò che già esplicitamente si sta raccontando. È Roberto Latini, nelle vesti di messaggero, a condurre il lungo monologo sulla morte dell’eroe; ma mentre la sua interpretazione di Atena, all’inizio dello spettacolo, risulta estremamente convincente, sembra che qui manchi una netta indicazione registica, lasciando l’attore in balia di un’eccessiva esasperazione, quasi ebbra. Tra le possibilità che offrono l’imponente macchina siracusana, gli ampi spazi e il budget di produzione, vi è quella di poter sperimentare e sfruttare nei modi più disparati i momenti corali. L’operazione di Micheletti in questo senso è precisa: sceglie di dare vita a un coro, diretto dal Maestro Davide Cavalli, propriamente lirico. Su tonalità che oscillano tra la magnificenza di Verdi e il musical di Cocciante, il coro contribuisce ad aggiungere allo spettacolo un’estrema cupezza e gravità, corroborando gli altri elementi dell’allestimento. Tutti i segni registici, forse sovrabbondanti e barocchi, però, sono fermamente coerenti tra loro, in una messinscena che suscita forti sentimenti d’angoscia, quasi da horror vacui.
Non ho invece ritrovato una simile coerenza d’approccio interpretativo nella versione di Fedra (Ippolito portatore di corona) di Paul Curran, in cui pare difficile riuscire a ricucire i numerosi spunti proposti dalla regia. Le componenti dello spettacolo, infatti, si presentano slegate tra loro, senza una chiara visione d’insieme, a partire dalla recitazione degli interpreti che, assecondando l’indole di ognuno, contribuisce a generare un effetto stroboscopico. La lettura di Curran, in effetti, pare più ammiccare a linguaggi dell’iper-contemporaneo, quasi da reel, piuttosto che utilizzarli come strumento d’interpretazione di un classico. Il coro dei seguaci di Artemide diventa così una masnada di hippies che cantano, agitano tamburelli e brandiscono calici, urlano e si dimenano come in preda a un’estasi generata da sostanze stupefacenti; vestiti colorati da figli dei fiori sembrano più che altro scimmiottare un rito bacchico. E se le Baccanti-hippies trovano nella storia del teatro illustri precedenti, come quelle di Luigi Squarzina con la traduzione di Edoardo Sanguineti, c’è da ricordare che l’anno di questa messinscena era proprio il 1968; ma il fraintendimento è ancora più grande: qui, in Ippolito portatore di corona, ci sono gli intransigenti seguaci di Artemide e non certo le Menadi, devote a Dioniso. Lo stesso coro, poi, si presenta nelle vesti di un gruppo di vigili del fuoco o membri della protezione civile, con indosso elmetti e torce frontali, giubbetti gialli e divise arancioni catarifrangenti, portando barelle al suono di sirene e percuotendo bidoni dell’immondizia. Curati da Gary McCann come le scene, i costumi degli interpreti principali rispondono invece allo stereotipo del teatro antico, con la loro tipica foggia del peplo. Tutto ciò non riesce a deflagrare, né si ha la percezione di trovarsi di fronte a un cortocircuito illuminante tra alcuni elementi riconducibili al presente e altri al mondo classico. Con il crepuscolo che lascia spazio al buio, l’enorme testa che campeggia al centro dello spazio scenico viene utilizzata per proiettarvi sopra alcune immagini. L’utilizzo del multimediale, tuttavia, si rivela fortemente didascalico, senza spalancare nuove o altre prospettive: quando Fedra si suicida, vediamo le fiamme che divampano per lasciare poi spazio a un teschio che ci suggerisce banalmente il tema della morte; quando il mostro esce dalle acque del mare per travolgere il carro su cui viaggia Ippolito, ecco comparire le onde. La grande testa è incastonata in un’impalcatura, simile a quelle dei cantieri edilizi: tra hippies e ponteggi, abiti variopinti, balli e canti, sembra di essere di fronte a una versione poco riuscita di Jesus Christ Superstar, senza lambire la forza dirompente che quel musical ebbe. Inoltre, nonostante l’esperienza tipica di Siracusa veda sempre approntata una nuova traduzione per la messinscena, qui il testo recitato appare ricco di dettagli spuri che non vengono sfruttati dalla regia, tanto da spingere lo spettatore a domandarsi verso quale direzione stia procedendo lo spettacolo. Eppure, la recitazione è oltremodo enfatica; il gioco di rimandi tra elementi interni della vicenda e i simboli presenti sulla scena funziona solo come esplicita e ridondante conferma di ciò che già conosciamo; il contrasto con la contemporaneità è svuotato di ogni significato che non sia strettamente scenografico. Appare così una Fedra sciatta e senza guizzi, in una costruzione impoverita di stimoli per l’ampio pubblico, che pur applaude festante. È la magia del Teatro Greco di Siracusa.
Andrea Malosio
in copertina: foto di Franca Centaro
AIACE
opera di Sofocle
traduzione Walter Lapini
regia Luca Micheletti
musiche originali Giovanni Sollima
scene e luci Nicolas Bovey
costumi Daniele Gelsi
in collaborazione con Elisa Balbo
maestro del coro Davide Cavalli
altro maestro del coro e maestro di sala Marcello Mancini
coreografie Fabrizio Angelini
aiuto regista Benedetto Sicca
assistente alla regia Francesco Martucci
assistente scenografo Eleonora De Leo
assistente costumista Andrea Grisanti
direttore di scena Giovanni Ragusa
assistenti volontari alla regia Andrea Triaca e Gianni Giuga
con Roberto Latini, Daniele Salvo, Luca Micheletti, Diana Manea, Arianna Micheletti Balbo, Tommaso Cardarelli, Michele Nani, Edoardo Siravo, Lidia Carew
coro di marinai
corifei Giorgio Bongiovanni, Lorenzo Grilli, Mino Manni, Francesco Martucci
coreuti Giovanni Accardi, Gaetano Aiello, Ottavio Cannizzaro, Pasquale Conticelli, Giovanni Dragano, Raffaele Ficiur, Gianni Giuga, Paolo Leonardi, Marcello Mancini, Marcello Zinzani
Accademia d’Arte del Dramma Antico, sezione Giusto Monaco
marinai Tommaso Arquilla, Alberto Carbone, Giovanni Costamagna, Alessandro Cunsolo, Christian D’Agostino, Carlo Alberto Denoyè, Gabriele Esposito, Lorenzo Ficara, Ferdinando Iebba, Marco Maggio, Lorenzo Marra, Moreno Pio Mondì, Matteo Nigi, Lorenzo Patella, Tommaso Quadrella, Daniele Sardelli, Massimiliano Serino, Davide Sgamma, Stefano Stagno, Giovanni Taddeucci
Erinni/soldati/dèi Andrea Bassoli, Davide Carella, Carloandrea Donizetti, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini, Riccardo Massone, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Francesco Ruggiero, Flavio Tomasello
violoncelli Francesco Angelico, Christian Barraco, Cecilia Costanzo
percussioni Giovanni Caruso
arpa Giuseppina Vergine
clarinetto Marcello Zinzani
trombone Paolo Leonardi
FEDRA (IPPOLITO PORTATORE DI CORONA)
opera di Euripide
traduttore Nicola Crocetti
regista Paul Curran
assistente alla regia Michele Dell’Utri
scene e costumi Gary McCann
assistente scenografo Gloria Bolchini
assistente costumista Gabriella Ingram
direzione del coro Francesca Della Monica
responsabile del coro Elena Polic Greco
musiche coro iniziale Matthew Barnes
musiche spettacolo Ernani Maletta
disegnatore luci Nicolas Bovey
video design Leandro Summo
drammaturgo Francesco Morosi
assistente drammaturgo Aurora Trovatello
assistente alla compagnia Riccardo Rizzo
direttore di scena Dario Castro, Eleonora Sabatini
con Ilaria Genatiempo, Riccardo Livermore, Sergio Mancinelli, Gaia Aprea, Alessandra Salamida, Alessandro Albertin, Marcello Gravina, Giovanna Di Rauso,
corifee Simonetta Cartia, Giada Lorusso, Elena Polic Greco, Maria Grazia Solano
coro di donne di Trezene Valentina Corrao, Aurora Miriam Scala, Maddalena Serratore, Giulia Valentin, Alba Sofia Vella
Accademia d’Arte del Dramma Antico
coro Caterina Alinari, Allegra Azzurro, Andrea Bassoli, Claudia Bellia, Carla Bongiovanni, Clara Borghesi, Davide Carella, Carlotta Ceci, Federica Clementi, Alessandra Cosentino, Sara De Lauretis, Ludovica Garofani, Enrica Graziano, Gemma Lapi, Zoe Laudani, Salvatore Mancuso, Carlo Marrubini Bouland, Arianna Martinelli, Riccardo Massone, Linda Morando, Giuseppe Oricchio, Davide Pandalone, Carloandrea Pecori Donizetti, Alice Pennino, Francesco Ruggiero, Daniele Sardelli, Flavio Tomasello, Elisa Zucchetti.