La guerra, si sa, è una presenza costante nel mondo classico, greco e romano, ma è anche un cardine del dramma antico e uno dei temi su cui si concentrano allestimenti e adattamenti contemporanei; a maggior ragione nel caso degli spettacoli classici di Siracusa, nati nel 1914 con la prima guerra mondiale e testimoni, come il loro pubblico, di innumerevoli conflitti in centodieci anni di storia. E se il regime fascista aveva portato la retorica bellica anche a teatro, nel dopoguerra e in anni recenti si è dato sempre più spazio a testi e allestimenti che vanno in direzione contraria, da tragedie come le Troiane di Euripide, riproposte di frequente, alle commedie cosiddette ‘pacifiste’ di Aristofane, tutte e tre approdate a Siracusa: Acarnesi (1994), Lisistrata (2010, 2019 e prevista nel 2025), Pace (2023).
Proprio le commedie riservano negli ultimi anni le maggiori sorprese: a lungo bandite da Siracusa o rappresentate raramente, relegate a poche giornate o a fine stagione, non di rado superano le tragedie precedenti per efficacia e originalità, e per la libertà nell’adattamento drammaturgico (quando i registi intervengono sul testo, anche con la trasposizione di fatti e personaggi nel presente). Non fa eccezione quest’anno, non solo confermando questa tendenza, ma presentando una novità di assoluto rilievo: per la prima volta in centodieci anni Siracusa ospita una commedia latina, il Miles Gloriosus di Plauto.
Almeno sulla carta il passaggio del testimone, dal greco Aristofane al latino Plauto, è un esperimento innovativo ma non privo di rischi. Prima di vedere gli spettacoli è bene ricordare le caratteristiche dei due commediografi: Plauto riprende e trasforma (con innovazioni anche geniali) personaggi, situazioni e intrecci della Commedia Nuova (basati su amanti divisi, intrighi e scambi di persona), non le trame surreali e fantasiose della Commedia Antica. La Roma di Plauto non permetteva ai comici la medesima libertà di parola (parrhesia) di cui godeva Aristofane, con la sua satira scurrile e aggressiva, ricca di elementi che oggi definiremmo ‘politicamente scorretti’. Secondo le nostre magre fonti, infatti, i teatranti vivevano in condizioni precarie dal punto di vista economico, ma anche della tutela: era pericoloso mettere alla berlina le istituzioni romane, i nobili e i potenti, e la figura stessa del pater familias, a cui i giovani della commedia latina (che siano figli o rivali in amore) possono opporsi solo a certe condizioni (lo racconta bene Maurizio Bettini in Verso un’antropologia dell’intreccio, Urbino, Quattroventi, 1991).
Date queste premesse, chi va a vedere il Miles a Siracusa non può certo aspettarsi la vis polemica aristofanea, con attacchi nominali espliciti e diretti contro persone reali, quanto piuttosto una satira sociale di situazioni e tipi comici, maschere basate su vizi stereotipi, come il ‘soldato fanfarone’ del titolo: il quale, per le ragioni citate sopra, non è certo un prode soldato romano, ma un mercenario ‘spostato’ in un contesto lontano, esotico e orientale (la commedia è ambientata a Efeso). Questa condizione di outsider mette al riparo Plauto dalla censura e gli consente maggior spazio di manovra per la rielaborazione drammaturgica. Nasce così il soldato Pirgopolinice, antenato delle maschere della Commedia dell’Arte (Capitan Fracassa e simili) e dei molti eredi di epoca successiva, fino ai bulli dei nostri giorni: non a caso Pasolini traduce la commedia plautina in romanesco (Il Vantone, 1963), su commissione di Vittorio Gassman dopo il successo della loro Orestiade siracusana (1960): a loro volta i registi Roberto Valerio (2009) e Arturo Cirillo (2012) adattano e interpretano Pasolini trasponendolo nella Roma contemporanea.
Nel ruolo del protagonista, a Siracusa, il regista Leo Muscato sceglie un’attrice (la romana Paola Minaccioni, che richiama per modi e cadenze la tradizione comica della sua città) e tutte donne sono anche le altre interpreti; il che non è una novità assoluta (a Siracusa lo ha fatto Emma Dante con l’Eracle di Euripide, 2018), ma l’operazione è qui azzeccata e giustificata da vari motivi, spiegati bene da Muscato nell’ottima nota di regia del libretto di sala. Già Aristofane, infatti, fa dire provocatoriamente a Lisistrata, nell’omonima commedia, “la guerra è affare di donne”, rovesciando il senso comune e preludendo a una rivoluzione (lo sciopero del sesso attuato dalle donne, con successo, per porre fine alla guerra). Su queste premesse Muscato non solo arruola un cast di prim’ordine, ma vi aggiunge anche un coro eccellente – le allieve dell’Accademia del Dramma Antico (ADDA) della Fondazione INDA – a confermare quanto già si sapeva: la palestra del comico è non solo materia di studio, ma risorsa importante per le future attrici, per spezzare l’egemonia maschile anche in teatro, ironizzare sulla propria condizione, usare sempre meglio le armi comiche con consapevolezza e determinazione (basti citare, tra gli esempi recenti, lo stuolo di comiche capitanato da Serena Dandini nello spettacolo Vieni avanti, cretina!, erede di quel varietà capostipite del genere che fu La TV delle ragazze).
Questo esercito sui generis entra in scena marciando e cantando, in divise fintamente ‘mimetiche’ (giallorosse, troppo sgargianti e vistose per essere credibili), con cappelli coperti di frasche, bagagli ingombranti, salmerie militari e attrezzature da campo che nel corso del dramma verranno ampiamente sfruttate dalla scenografia: dietro l’asta della bandiera, che è fulcro dello spazio scenico, e dietro le due case in primo piano – sede dell’azione principale – sullo sfondo il coro monta, sotto gli occhi dello spettatore, un vero accampamento di tende colorate. Qui, per l’intera durata dello spettacolo, i soldati in tenuta ‘da riposo’ (canottiera e bermuda, come un gruppo di scout) si esercitano, cucinano, mangiano, lottano, con coreografie corali estremamente curate, offrendo una divertente, costante e movimentata controscena alle vicende dei personaggi principali. Spicca tra questi il vacuo e vanesio soldato Pirgopolinice, sempre impegnato a spacciarsi per prode combattente e irresistibile seduttore. Quest’ultimo aspetto – la seduzione, vero motore della vicenda – viene opportunamente sottolineato da una efficace contaminazione col mito moderno di Don Giovanni: alla sua prima apparizione il soldato ha come ‘spalla’ l’adulatore Artrotogo (Alice Spisa), costretto a elencargli le sue conquiste, militari e amorose, in un rocambolesco, iperbolico, irrealistico elenco. Qui il testo viene cantato sull’aria di Leporello, “Madamina, il catalogo è questo” del Don Giovanni di Mozart. Un analogo e riuscito intervento è l’introduzione sulla scena di una scimmia (animale che in Plauto viene soltanto nominato), trasfigurata in simbolo della vanità e della stupidità umana: la sua sagoma domina il fondale scenico, e a interpretarla è una giovane e brava attrice (Valentina Spaletta Tavella) che infastidisce i soldati, si arrampica sulle tende con movenze animalesche, cammina a quattro zampe e soprattutto fa da spalla fissa al soldato, come un’ombra o ‘doppio’, ma più intelligente di lui: tant’è che tenta inutilmente di avvertirlo quando cade nel tranello architettato dal servo Palestrione (la poliedrica Giulia Fiume). Quest’ultimo, come sempre in Plauto, è il vero protagonista della commedia, ipostasi del poeta stesso, architetto dell’inganno su cui ruota il complesso intreccio; a interpretare i ruoli femminili sono invece Gloria Carovana (nei panni della concubina Filocomasio), Deniz Özdoğan (la prostituta Acroteleuzio) e Anna Charlotte Barbera (la serva Milfidippa, che si presenta come ‘Milfi’ con una strizzata d’occhio allo slang contemporaneo). Sono loro il contrappasso vivente alla misoginia del soldato e in generale della società romana, come sottolinea giustamente il regista: il macho che ostenta virilità e parla male delle donne è da loro sedotto e beffato. Con un evidente rovesciamento gerarchico, l’antico dominatore è dominato, sconfitto, umiliato: smascherato come seduttore e attentatore alle mogli altrui, legato alla pubblica gogna, punito con pene corporali, cacciato dalla sua compagnia. Il finale tragicomico rivela una morale dura e graffiante, una sferzata degna di Aristofane e di tutti i comici non ‘innocui’: ci ricorda una bella riscrittura del Miles, di Antonello Taurino, ispirata alla storia vera dei soldati italiani inviati in ‘missione di pace’ nella ex Jugoslavia, e colpiti anni dopo dal cancro per aver usato – senza saperlo – proiettili all’uranio impoverito (Miles Gloriosus, morire d’uranio impoverito, 2013). A Siracusa Muscato mette in scena una guerra da operetta, ma tutt’altro che leggera. E con le armi del comico, del gioco e dell’autoironia rifiuta e denuncia la guerra vera, la sua totale insensatezza, l’assurdità delle gerarchie militari, la follia delle ‘armi intelligenti’. Così questo Miles si inscrive a buon diritto nel vasto filone di satira antimilitarista che vanta ‘classici’ come M*A*S*H* (il film di Altman, del 1970, e l’omonima serie tv) e Comma 22 (dal libro di Joseph Heller del 1961 fino alla miniserie di George Clooney del 2019).
Un’ultima osservazione va fatta sull’esperienza peculiare del pubblico siracusano che vede in sequenza le tragedie e da ultima la commedia. Alla luce della commedia non è raro cambiare opinione sulle precedenti tragedie, trovarvi spunti di riflessione, dar loro nuovo senso. Vedendo in sequenza il Miles subito dopo la tragedia Ippolito di Euripide (ribattezzata Fedra) si colgono affinità profonde tra le due parti in causa nella guerra dei sessi e i rispettivi comportamenti: il figlio dell’Amazzone disprezza Afrodite e auspica di poter fare a meno del genere femminile, mentre il soldato mercenario vanta la sua superiorità sulle donne, e l’afferma costantemente nella pratica di rapirle e sedurle. Per contrappasso, entrambi sono vittime delle tanto vituperate donne (Fedra accusa Ippolito di tentato adulterio), entrambi puniti da un altro uomo per aver attentato alla virtù della moglie (è il padre stesso a causare la morte di Ippolito). I due allestimenti in sequenza, nello stesso teatro, avvicinano i due estremi: il cacciatore algido e vergine da un lato, il soldato spaccone e donnaiolo dall’altro, sono due facce della stessa visione patriarcale del mondo, destinata auspicabilmente alla sconfitta dentro e fuori scena.
Martina Treu
in copertina: foto di Michele Pantano, AFI Archivio Fondazione Inda
MILES GLORIOSUS
opera di Plauto
regia Leo Muscato
traduzione Caterina Mordeglia
scene Federica Parolini
costumi Silvia Aymonino
direzione del coro Francesca Della Monica
musiche Ernani Maletta
drammaturgo Francesco Morosi
coreografie Nicole Kehrberger
assistente alla regia Marialuisa Bafunno
assistente scenografo Anna Varaldo
assistente costumista Maria Antonietta Lucarelli
disegnatore luci Alessandro Verazzi
responsabile del coro Elena Polic Greco
direttore di scena Giuseppe Coniglio
assistente alla direzione di scena Giuseppe Orto
con Paola Minaccioni, Alice Spisa, Giulia Fiume, Pilar Perez Aspa, Francesca Mària, Gloria Carovana, Arianna Primavera, Ilaria Ballantini, Deniz Ozdogan, Anna Charlotte Barbera, Valentina Spaletta Tavella
coro Ginevra Di Marco, Sara Dho, Alessandra Fazzino, Valentina Ferrante, Diamara Ferrero, Valeria Girelli, Margherita Mannino, Stella Piccioni, Elena Polic Greco, Giulia Rupi, Rebecca Sisti, Silvia Valenti, Irene Villa, Sara Zoia
con la partecipazione degli allievi dell’Accademia d’Arte del Dramma Antico, sezione Giusto Monaco
coro Sara De Lauretis, Elisa Zucchetti, Caterina Alinari, Clara Borghesi, Carlotta Ceci, Alessandra Cosentino, Ludovica Garofani, Zoe Laudani, Siria Sandre Veronese, Enrica Graziano, Alice Pennino, Federica Clementi, Gemma Lapi, Arianna Martinelli, Beatrice Ronga, Francesca Sparacino, Angelica Beccari, Gaia Lerda, Giulia Maroni, Linda Morando, Erika Roccaforte, Francesca Totti