Un ampio buco nero sul fondo del palcoscenico, ancora più nero della parete che trafigge. Così si presenta l’ambiente del Teatro Piccolo Arsenale, destinato ad accogliere, dal 12 al 16 ottobre, i lavori del laboratorio di Romeo Castellucci, regista della Socìetas Raffaello Sanzio. L’interrogazione sulla natura, lo scopo e lo statuto di questo elemento, è destinata ad accompagnare i giorni di workshop, le azioni e i pensieri; mentre non c’è alcuna certezza che la funzione del buco nero sia in qualche modo rivelata o almeno specificata.
Una linea-forza è subito dichiarata, a parole e con i fatti: tentare di cambiare il punto di vista. Per inaugurare questo percorso – composto dagli itinerari personali dei tredici partecipanti – si parte proprio dalla singolarità dell’attore. Alla presentazione di sé è dedicato il primo giorno nella sua interezza. Il laboratorio, per inciso, non è cominciato martedì 12 ottobre, ma qualche giorno prima, quando Castellucci ha richiesto a tutti gli allievi di preparare ognuno due “pezzi” da mostrare: uno che prevedesse l’uso della parola o della voce, l’altro solo gestuale. Obiettivo, quello di presentare una propria concezione del tempo, dello spazio, della voce e dunque un’idea di spettacolo.
Ed è un’esplosione di molteplice bellezza a fior di palcoscenico, quella che anima il primo giorno di lavoro. In un’estrema varietà di linguaggi – dalla narrazione tradizionale alla danza, dal mimo ai paradossi della parola: a volte giustapposti, altre oggetto di commistione – si susseguono tante immagini di un teatro possibile, piccole performance di grande precisione e potenza. Gli attori mostrano personalissimi modi di trattamento del sé in scena: dalla scelta del testo, del suono, dei colori, all’impostazione del corpo, del gesto, del movimento, fino all’intimità del tipo di relazione con il palcoscenico e la platea. Ecco l’innesco del percorso laboratoriale ad opera di Romeo Castellucci, quello che si può considerare il materiale di partenza: la presenza, personalissima, dei suoi partecipanti, con la propria idea di attore e di azione, con i privilegi dedicati da ognuno a un certo linguaggio e con il suo immediato superamento, operato dalla presenza stessa del performer.
Nella densità di lavoro che la durata del workshop impone – cinque giorni – si intrecciano le due dimensioni di ricerca proposte: da un lato il discorso sulla creazione, articolato nel lavoro di gruppo intorno a una scena; dall’altro la sperimentazione, attraverso alcuni esercizi individuali, della presenza attoriale in scena, nel contesto di quel «risveglio dell’immagine» che ha fatto conoscere il lavoro del regista della Socìetas Raffaello Sanzio al pubblico.
Particolare interesse, poi, è dedicato a quello che è considerato il protagonista del teatro: lo spettatore. Per un Maestro che dichiara fin da subito – e ripete spesso – l’assenza di fede nella pedagogia e rivolge invece l’attenzione per quello che è definito il “re” del teatro, ossia lo sguardo dello spettatore, il laboratorio diventa uno scambio, un’esplorazione allo stesso tempo individuale e collettiva dell’essenza del teatro. Il punto di vista privilegiato, infatti, è uno: non quello del maestro, regista o attore che sia, ma quello dello spettatore. Ogni performer, infatti, è contemporaneamente agente e osservatore dell’azione propria e altrui. Se la tensione dell’atmosfera del palcoscenico è agitata dall’azione attoriale – dal costellarsi della preparazione individuale prima del laboratorio fino ai singoli esperimenti di presenza guidati dal regista – il buio della platea è sempre popolato di un formicolio di sguardi che attraversano la scena. Quello che si vede in un teatro o in un museo, dichiara Castellucci, è l’atto stesso del guardare: reciprocamente, lo spettatore osserva l’opera e l’opera guarda chi l’osserva – qui si trova un fulcro del teatro e del lavoro che si andrà a svolgere nei giorni di laboratorio.
La presenza dell’attore sul palcoscenico – e non è un gioco di parole – è affrontata tramite atti di presenza: il laboratorio comincia con l’esplorazione dei gesti essenziali dell’azione teatrale: dall’entrata in e l’uscita di scena all’attraversamento del palco, dalla rivelazione del volto ai diversi significati che assume una certa collocazione. Tutti elementi minimi, che spesso sembrano naturali o scontati, ma che invece – e rivederli tredici volte e più fa il suo effetto – si dimostrano in tutta la loro complessità, racchiudono una potenza inaudita e si rivelano cruciali per tutto lo sviluppo dell’azione. «Sono gesti gravi, pieni di conseguenze», avverte Castellucci. In un fumo invadente, solido, poroso – forse ad indicare la densità dell’atmosfera del palcoscenico – gli allievi sperimentano le proprie reazioni individuali alla luce e al buio, a diverse sonorità, agli oggetti. Si inseguono sincronie gestuali possibili e si provano diversi modi di trattamento del tempo – quello che il regista stesso segnala come il potere essenziale dell’attore, che può affrontarlo plasticamente, creando forme non consuete di temporalità. Poi c’è l’esperienza della potenza del proprio volto e della rivelazione legata allo specchiamento fra attore e spettatore.
Il secondo giorno di lavoro, intanto, si chiude con un esperimento affascinante ed impressionante, che sembra collocarsi all’apice dei tentativi di studio intorno alla presenza attoriale: in un particolare modo di entrare ed uscire dalla scena, l’attore affiora alla luce e scompare nel buio attraverso una cangiante pittura del corpo.
Romeo Castellucci ricorda spesso come il suo lavoro non sia animato dalla fede in una tecnica o dallo sviluppo di un metodo: l’itinerario si rivela sempre diverso, e si tratta di trovarlo ogni volta, forse proprio per mantenere quella “stranezza”, specificità ontologica attraverso cui occorre che il teatro si presenti di nuovo, ogni volta. Più che proporre un metodo lineare o verificare una tecnica già decisa, il regista sembra voler accompagnare le esplorazioni dei giovani artisti coinvolti, condividendo l’esperienza della sperimentazione, al di qua e al di là dell’arco di proscenio: non rilasciare un modo corretto di affrontare un problema, ma trasmettere un’inesausta curiosità nello sviluppare un’indagine nella realtà del teatro.
Roberta Ferraresi