intorno a LA CLASSE. UN DOCUPUPPETS PER MARIONETTE E UOMINI

Come nasce l’idea di parlare di una classe?

“Ho passato otto anni in un istituto di suore a Roma, ma i ricordi che ho voluto portare alla luce sono quelli delle elementari. Con gli anni ci sono spesso tornata col pensiero, e ho sempre creduto che, un giorno, avrei dovuto raccontare quelle vicende. Quando mi sono decisa, ho sentito il bisogno di non essere sola nel viaggio verso il mondo oscuro della memoria, e sono andata alla ricerca dei miei ex compagni. Grazie a Facebook ne ho ritrovati moltissimi, ma alcuni non hanno accettato di rispondere alle mie domande. Non se la sentivano: preferivano lasciare in pace quegli anni. Con altri, che hanno accettato, le interviste sono state l’occasione per comprendere che la memoria è un territorio davvero scivoloso; che l’essere umano decide, a volte per sopravvivere, di inventarsi un proprio passato, di scegliere cosa ricordare e cosa dimenticare. Dalle interviste sono riaffiorate schegge di un passato che io avevo completamente dimenticato e altri pezzi che, invece, erano rimasti indelebili in ciascuno di noi.
Rincontrando i compagni di scuola dopo più di trent’anni ho anche provato delusione: erano esseri umani che nel frattempo si erano permessi di diventare adulti. Quello che cercavo in loro non era il loro oggi, ma la nostra infanzia. Avevo bisogno di ritrovare con loro quel luogo segreto, nascosto nelle nostre fotografie di bambini. Allora ho pensato che anche gli spettatori avessero nel petto la loro immagine indelebile di un eterno bambino; che desiderassero tornare lì, ritrovare quel tempo, quel luogo in cui c’è ancora il compagnuccio di banco, il bambinetto con gli occhiali, grassoccio e con la merenda nascosta sotto il banco…”.

E come mai li hai portati sul palco come pupazzi?

“Credo che la scelta di utilizzare pupazzi sia stata la logica conseguenza di un processo di trasformazione linguistica già in atto, ma sia stata dettata anche dalle esigenze espressive di questo progetto. Nei precedenti lavori mi sono divertita nel mettere in scena attori trasfigurati: vecchi decrepiti, obesi extra-large, coppie di amanti identiche come gemelli. Ne La Classe ho compiuto un passo ulteriore usando, come attori, dei pezzi di legno. Ho pensato che le marionette sarebbero riuscite, in un modo molto tenero, a restituire i bambini della mia classe, incarnandoli senza sentimentalismi. Volevo evitare di essere patetica (il rischio era dietro l’angolo) e ho pensato che la loro asciuttezza esistenziale avrebbe raccontato al meglio la solitudine di questi bambini, la loro impotenza. Trovavo poi appropriato che i manipolatori/animatori fossero a vista, che si vedessero queste piccole creature mosse ed agite da esseri umani adulti”.

La tua drammaturgia non nasce a tavolino, ma da interviste e da idee che si sviluppano in sala-prove. Come sei passata in questo caso dalla tua storia personale al testo e ai volti de La classe?

“Questo, come il precedente La trilogia dell’attesa, sono stati due frutti felici di questo tipo di lavoro in sala prova. In questo caso abbiamo scelto di non inserire nello spettacolo i nomi dei miei compagni: non ce ne era bisogno. Con Fiammetta siamo partite dalle immagini, dalle fotografie di quattro dei miei compagni di classe, e le marionette sono state create sui loro volti e sulle loro caratteristiche psicofisiche. I personaggi sono nati nel corso di un anno circa. La prima ad arrivare è stata Giorgia, la bambina con i grandi occhiali gialli, perché dovevamo partecipare ai Teatri del sacro, e presentare venti minuti di lavoro.
Solo dopo aver intervistato i miei compagni di classe sono stati scelti gli altri personaggi. Il secondo ad arrivare è stato il bambino cicciottello e occhialuto, poi gli altri due. I caratteri sono stati costruiti sui loro racconti e sui ricordi che io avevo di ciascuno di loro. Abbiamo scelto di lavorare sulle figure che maggiormente potevano risuonare in ognuno di noi, su quei compagni di classe che tutti abbiamo incontrato nella nostra infanzia: il bambino cicciottello che vorrebbe essere il primo della classe; la bimba brava e bella che, non si sa bene perché, ma è sempre bionda e frequenta un corso di danza classica; e ancora il bimbo solo e preso in giro da tutti, che nella memoria è rimasto come un enorme senso di colpa; e infine la ragazzina ribelle, che viene picchiata sempre. In alcuni dei personaggi sono confluite le caratteristiche di altri, perché sentivamo il bisogno di rendere ciascun carattere ancora più tridimensionale; perché volevamo affondare maggiormente nella restituzione delle varie umanità, anche alla luce delle tante interviste che continuavo a fare e che andavano ad arricchire il nostro archivio della memoria”.

Ma La classeci mostra anche la tua storia…

Già. La bambina con gli occhialoni gialli, è sì ispirata a una mia una mia compagna di classe (la prima che abbiamo intervistato), ma nel corso delle prove, durante il lavoro di creazione artistica, in quella bambina ci sono finita anche io. Lei è diventata me e io sono diventata lei, e in quel momento ho trovato il cuore pulsante dello spettacolo. È stata un’epifania: a un certo punto è accaduto; se rimani in ascolto profondo della materia che stai trattando, qualcosa si manifesta sempre”.

Claudio Facchinelli