Come avete conosciuto il lavoro di Maguy Marin e come lo avete associato a quello di Adriano Bolognino?
Ho incontrato la figura di Maguy Marin mentre studiavo danza classica e sono rimasto impressionato dai temi centrali e attuali, sempre politicamente rilevanti, talvolta anche scomodi, che la coreografa ha scelto di affrontare. Si può dire che proprio Marin abbia costituito il mio viatico di approdo definitivo alla danza contemporanea. Così, quando si è presentata l’occasione di dover selezionare alcune coreografie da realizzare, la scelta è ricaduta in maniera naturale sul suo lavoro. Maguy Marin è stata molto generosa: come compagnia, noi MM, non possiamo contare sull’appoggio di molti fondi e lei, per sottolineare quanta possibilità di azione politica ci sia anche nell’arte, nella danza, ha scelto comunque di collaborare con noi, per sostenere la nostra idea. La connessione con Adriano Bolognino è avvenuta spontaneamente, un po’ per coerenza con la nostra mission, che vuole accostare nomi nuovi a lavori più famosi, un po’ per una sintonia stilistica e spirituale: in entrambi i coreografi è visibile un grande nitore gestuale e insieme una forza corporea molto intensa.
Da tutte le vostre performance emerge, come cifra stilistica, un’attenzione alla relazione intima che si instaura tra i corpi in scena. Da dove nasce questa centralità?
La filosofia che si sposa, entrando a far parte della nostra compagnia e della nostra scuola, è che ci si lega fortemente a un’ideale della cura, indagato attraverso le dinamiche del movimento. Così la compagnia diventa una famiglia, un nucleo progettuale in cui tutti hanno la possibilità di esporsi e di assumersi la responsabilità di non essere solo dipendenti ed esecutori. Ciascuno ha la possibilità di portare sul palco la propria energia umana, dando vita insieme a un corpo unico. Queste premesse determinano fin da subito un approccio politico e, al contempo, anche molto intimo.
Come avete lavorato per creare la stratificazione e la versatilità che caratterizza BALLADE?
BALLADE è uno spettacolo leggibile a più livelli, che permette di rivolgersi a un pubblico diversificato: è spesso usato come strumento di divulgazione nelle scuole perché, grazie al suo linguaggio in apparenza semplice, legato al divertissement in stile anni Ottanta, può attraversare temi articolati e complessi, che riescono a coinvolgere sensibilità diverse. Questa performance, inoltre, riesce a provocare il pubblico per la libertà ostentata con cui il corpo viene esposto allo sguardo dello spettatore.
Lo stile di Tondelli, a cui BALLADE si ispira, segue una parabola letteraria avviatasi con l’utilizzo di un linguaggio volgare come in Altri libertini, arrivando alla voce intima e pacata di Camere separate. Come avete restituito questa evoluzione?
Mauro Bigonzetti ha scelto di veicolarla attraverso l’inserimento di cambi di dinamica attuati nelle scelte dei brani e nella scrittura coreografica. Lo spettacolo presenta una serie di momenti di narrazione segnati da differenti atmosfere, determinate dalle scelte musicali, e differenti sviluppi della prossemica dei danzatori. Si alternano sequenze intime, incarnate da uno o due corpi, e sezioni che invece si impongono allo spettatore con brutalità, in cui è determinante la presenza fisica massiccia del gruppo sulla scena. Più in generale, l’ispirazione data dalla produzione e dalla figura di Tondelli emerge in maniera totale e permea ogni aspetto, non potendo ignorare ciò che lo scrittore ha rappresentato per l’epoca che ha raccontato e per la nostra città, Reggio Emilia.
In questa edizione del festival MILANoLTRE il contrasto tra molteplicità e singolo è stato ampiamente esplorato sia da voi che da altri artisti. Da dove nasce l’interesse per questo dualismo?
Negli anni della mia formazione, la danza non era così legata al concetto di “solo” o di “duo”, ma piuttosto a quello di compagnia. Proprio così si è delineata in me l’idea che la compagnia sia costituita da un gruppo di persone che, insieme, compie una scelta stilistica, espressa dal lavoro di un coreografo o, nel nostro caso, da una linea di pensiero e di lavoro condivisa. Pur nella diversità corporea e anagrafica, siamo artisticamente accomunati dalla volontà di narrare la vita quotidiana o di avvicinare il mondo della danza a pubblici lontani per interessi e opportunità. (Questo, peraltro, è un principio esteso anche alle nostre collaborazioni: Maguy Marin, per prima, mi ha detto che non solo ho la possibilità, ma soprattutto il dovere di esportare le sue coreografie fuori dai grandi teatri!) Siamo contenti di aver raccolto più voci che si costituiscono come espressione di un’unica istanza, esplorando così le possibilità della dimensione collettiva e di quella del singolo.
Riuscite ad applicare questa concezione del lavoro di compagnia anche al campo della formazione?
Da quindici anni abbiamo avviato un percorso di perfezionamento, Agora Coaching Project, che funziona come una vera e propria compagnia. Occupandomi di formazione, mi sono reso conto che spesso l’accademia riesce a preparare un danzatore tecnicamente, ma difficilmente lo stimola a sviluppare l’espressività che in realtà poi i coreografi richiedono in fase di selezione. Per questo ci tengo che i miei allievi possano sperimentare e conoscere il lavoro di coreografi differenti, misurandosi e capendo, di volta in volta, quello che più gli appartiene, che comunica meglio con le loro personali istanze artistiche. Col tempo il corso ha assunto anche la forma di una fucina da cui poter avere accesso sia al linguaggio di altri coreografi, sia a quello della nostra compagnia a seconda delle caratteristiche e delle preferenze del singolo ’allievo/a,sollecitate anche attraverso molti momenti di dialogo, letture, consigli teatrali e cinematografici.
Cosa rappresenta per te il concetto di “trasmissione”?
Prende forma proprio nella scelta stessa di fare danzare in BALLADE Nicola Stasi, che lavora con me da quasi quindici anni. L’anno scorso inoltre gli ho affidato il compito di insegnare agli allievi il repertorio della nostra compagnia. Quando mi capita di ascoltarlo spiegare mi accorgo che utilizza le stesse parole da me impiegate quindici anni fa con lui. È come se avesse registrato ciò che gli ho trasmesso replicando, attraverso un corpo che è altro dal mio e che sarà altro nel tempo, la linea artistica appresa all’interno della compagnia.
Jaele Brittelli e Francesca Redaelli
in copertina: foto di @ Tiziano Ghidorsi
Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2024