In occasione della nuova tappa di En Plein Air, abbiamo incontrato, ospiti di Spazio Yak (la residenza di Karakorum teatro nella periferia di Varese), Paola Manfredi, regista e direttrice artistica di Teatro Periferico.
Come l’intero progetto En plein air si sviluppa in profonda connessione con lo spazio ospitante, così Teatro Periferico ha costruito negli anni una comunità attorno alla piccola cittadina di Cassano Valcuvia (piccolo centro in provincia di Varese al confine con la Svizzera). Ciascuno dei lavori proposti da TP ha come centro nevralgico una serie di esperienze personali e, di conseguenza, i luoghi a cui queste appartengono: quello diretto da Manfredi è un teatro che si costruisce attorno alla dimensione dell’individualità e che mette radici nei luoghi dove nasce.

Cosa ha in comune il Teatro Periferico di oggi con quello delle origini?

La nostra è un’attività in continua evoluzione. Teatro Periferico, innanzitutto, lavora “per progetti” e non “per spettacoli”. Fortunatamente — o sfortunatamente — non siamo obbligati a fare una produzione all’anno e questo ci permette di lavorare non solo con l’intento di produrre, ma di dedicarci a tematiche specifiche che scegliamo con tempi di gestazione anche di 4 o 5 anni. Seguiamo lo sviluppo del progetto nei modi suggeriti dalle necessità dell’argomento trattato e siamo soliti concludere con una pubblicazione cartacea che documenti l’evoluzione del lavoro. Costruiamo progetti complessi che uniscono il teatro sociale, alle nuove drammaturgie e alle indagini sociologiche.

In che modo l’incontro con il luogo dove ora ha sede Periferico ha influenzato il vostro progetto artistico? 

Trovarsi in uno spazio e immaginare progetti intimamente legati al luogo in cui prendevano forma, per noi, è sempre stata un’attitudine quasi naturale. È importante che ogni creazione abbia un impatto politico e che questo venga dal luogo che stiamo raccontando. Il teatro di Periferico ha sicuramente un ruolo di denuncia, ma a noi piace pensare di essere portatori e portatrici di soluzioni; più verosimilmente mettiamo in moto dei meccanismi che ci auguriamo vengano presi in considerazione dagli attori sociali del territorio. Disegniamo delle linee entro cui ogni progetto si muove nella sua unicità ma che cerchiamo di ancorare a un obiettivo più grande.

Con me in paradiso, di Mario Bianchi, regia di Paola Manfredi, foto di Domenico Semeraro

Da dove nasce questa necessità di spostamento da luoghi umanizzati (mi viene in mente un vostro lavoro di qualche anno fa sulla fabbrica) a luoghi naturali in cui l’uomo è unicamente “ospite”?

Un po’ a causa della pandemia, un po’ grazie alla vita che caratterizza la cintura di realtà periferiche del milanese. Anche perché quelle realtà ormai da anni sono anche diventate il luogo in cui vivo, oltre al luogo in cui lavoro. Lavorare immersi in uno scenario del genere ha portato la direzione artistica del teatro verso la valorizzazione del patrimonio naturale che ci ospita. È stata la risposta a una doppia vocazione: da una parte una vocazione “residenziale/locale” e dall’altra parte una vocazione più “nazionale” attraverso lavori dal respiro più ampio.

Rispetto al rapporto col territorio: considerato che la maggior parte dei professionisti coinvolti sono di Milano e che una delle vocazioni punta ad avere un respiro sovralocale, come si compone il pubblico del vostro teatro?

Tra le sfide più impegnative, legate al trasferimento in Valcuvia, c’è quella di gestire i trasferimenti da e verso Milano dei professionisti coinvolti… anche se da qualche tempo abbiamo iniziato a formare anche persone del luogo. Nei primi anni di attività il pubblico era composto quasi unicamente da milanesi in trasferta e questo ci portava a proporre una programmazione più coraggiosa. Col tempo siamo riusciti a coinvolgere in misura sempre maggiore anche spettatori locali, nonostante la nostra decisione di escludere dal cartellone il mainstream e il teatro amatoriale. Credo che una buona programmazione debba essere in grado di trovare il giusto equilibrio tra rappresentazione del proprio pubblico ed educazione attraverso nuove proposte. Il connubio con Karakorum (la compagnia residente a spazio YAK, situato a circa 30 minuti di strada) è stato funzionale per uno scambio reciproco di pubblico. Ed è stato abbastanza naturale costruire una stagione insieme. Oggi sappiamo di avere spettatori più competenti e le aspettative sono sempre più alte… 

Esiste un alto potenziale di aggregazione attorno ai vostri teatri! Come testate il gradimento del pubblico?

Esistono sicuramente delle piccole comunità che si sono formate attorno ai nostri spazi. Così come esistono degli “spettatori illuminati” che vanno riconosciuti e che sono in grado di fare da traino per altro pubblico. Abbiamo costruito un rapporto confidenziale con le persone e in parte ci prendiamo del tempo per raccogliere in presa diretta i loro commenti attraverso una sorta di critica partecipata: gli attori e le attrici sono sempre invitati a rimanere per rispondere alle curiosità del pubblico. 

Mombello, regia di Paola Manfredi, foto di Domenico Semeraro

Il tema della fiducia nelle persone è un elemento fondamentale in questa equazione: e se il luogo è fondamentale perché costituisce lo spazio entro cui avviene uno scambio, lo sono ancor prima le persone che questo spazio lo hanno reso vivo.

È assolutamente vero. Nei primi anni ci siamo dedicati moltissimo alla costruzione di questa fiducia proponendo attività di vario genere (spesso gratuite) e magari site-specific per valorizzare il patrimonio naturale e culturale di cui la comunità si sente parte. Non da ultimo il periodo della pandemia ci ha dato modo di approfondire progetti di tipo strettamente sociale. Il teatro per noi è un punto di riferimento non solo artistico. È anzitutto uno spazio fatto di persone. 

a cura di Ivan Colombo


in copertina: Con me in paradiso, di Mario Bianchi, regia Paola Manfredi, foto di Domenico Semeraro

Questo contenuto è parte dell’osservatorio dedicato al progetto En Plein Air.