Stefano Cordella (classe ’85), regista e attore della compagnia Òyes e Filippo Renda (classe ’88), regista e drammaturgo della compagnia Idiot Savant, sono i giovani direttori artistici di HORS. Abbiamo rivolto a loro qualche domanda prima dell’inizio del festival.
Non molti anni fa avete fatto il vostro ingresso nel mondo del teatro.
A quel tempo avete trovato un contesto che adesso vorreste contribuire a cambiare, magari già a partire da HORS?
Stefano – È proprio la domanda da cui siamo partiti: che cosa ci è mancato nel nostro inizio come registi di piccole compagnie emergenti? Quali sono i passi che abbiamo sentito difficili?
Filippo – Un festival come questo può essere davvero un’occasione per incominciare. Noi speriamo di saper accompagnare questo inizio con un sistema concreto di punti di riferimento da offrire alle compagnie che partecipano al progetto HORS.
Quali sono le novità di questa edizione di HORS?
S. – HORS è un festival già ben formato, alla sua terza edizione, e abbiamo voluto mantenere la struttura esistente: due weekend per quattro compagnie, tre repliche a testa al Teatro Litta, in più, abbiamo deciso di offrire agli artisti alcuni giorni di residenza. Questa è una possibilità rara e preziosa, perché offre la possibilità di confrontarsi con gli operatori già a partire da questa prima fase (la ‘vetrina’). Ci sarà poi una seconda fase, il ‘mosaico’, che rappresenta la vera novità del nostro progetto e che ha come scopo proprio il confronto, la contaminazione e la collaborazione delle compagnie per la creazione di uno spettacolo comune.
F. – Un’altra novità è stata il limite anagrafico: quest’anno il bando era riservato agli under 35, proprio perché abbiamo voluto insistere sulla giovane età dei partecipanti.
Quali sono stati criteri di scelta delle compagnie?
S. – Abbiamo preparato dei moduli da compilare e inviare insieme alla ripresa video dello spettacolo presentato. Si è posto il problema di capire quali informazioni chiedere, perché la maggior parte dei partecipanti al bando non aveva ancora una storia. Più che esaltare l’eccellenza, che a Milano abbiamo la fortuna di poter vedere tutto l’anno, quello che ci interessava era scegliere quattro compagnie giovani che avessero però linguaggi molto diversi tra loro. Spesso appena usciti da una scuola di teatro si ha un’impronta fortemente accademica e si crede che il teatro vada fatto solo in un modo; è soltanto dopo qualche anno che ci si accorge che di modi ce ne sono molti altri. Nella scelta abbiamo deciso quindi di premiare la personalità, l’audacia di chi ha rischiato in situazioni di limite e sperimentazione, di chi ha saputo trovare nuovi strumenti e adoperare bene quelli che ha. È ovvio, poi, che un primo filtro sulle oltre 90 candidature è stato quello qualitativo: abbiamo scelto senza dubbio lavori curati in modo professionale. In questo modo ci piacerebbe che il festival possa raccontare un po’ quello che sta succedendo nel panorama contemporaneo.
Il fatto che siate entrambi registi è stato un aiuto nella selezione degli artisti?
F. – In realtà in questo contesto mi sento più nel ruolo di rappresentante di una compagnia che in quello di regista. È molto importante perché in questo momento un valore fondamentale del teatro risiede nell’idea di comunità. Ci interessa spostare l’attenzione dal prodotto finale alla fase di lavoro precedente, perché è nel lavoro comune la vera natura del teatro.
Ci sembra di capire che vi proponiate di improntare anche il rapporto col pubblico secondo quest’idea, in modo che tutto non si concluda nella fruizione occasionale di un evento, di un prodotto, ma che si possa aprire lo spazio di un dialogo continuato.
F. – Sì, la speranza è questa: cercare di costruire un rapporto nel tempo. Ci piacerebbe che il nostro festival fosse un po’ come una fiera di fumetti: un luogo dove si ha la percezione di pagare il biglietto per l’ingresso, non soltanto per lo spettacolo, per venire a osservare cosa sta accadendo e come i giovani stanno lavorando.
Come può trovare spazio, in un contesto istituzionale, l’attenzione alle relazioni e al valore dell’incontro che voi auspicate?
F. – Noi viviamo in un sistema che ha funzionato per tanti anni, un sistema invecchiato e chiuso che vive per nutrire se stesso. Ma volerlo rompere sarebbe utopico, probabilmente anche ingiusto: forse la strada da intraprendere è proprio quella di proporre qualcosa di indipendente. Da parte di chi ci ha chiamato per questo progetto c’è stata sicuramente una grande disponibilità, anche se adesso la responsabilità di far funzionare questo festival è nelle nostre mani.
S. – È un discorso complesso: di fatto, HORS è un festival che si ritaglia una vetrina indipendente all’interno delle strutture del sistema.
Come sperate che la scelta di compagnie under 35 possa influenzare il tipo di pubblico?
S. – Questo è il problema più grande da affrontare. Ovviamente speriamo di attirare una fascia di pubblico più vicina all’età delle compagnie, ma c’è bisogno di tempo per coinvolgere davvero nuovi spettatori.
F. – Sarebbe bello se i ragazzi cominciassero a venire a teatro per poter stare insieme, non tanto o non solo perché il teatro è il teatro ma perché in quel luogo si sta insieme e non da soli. Ciò non significa necessariamente stravolgere il modo attuale di andare a teatro, ma sicuramente significa interrogarsi su che valore abbia per gli spettatori reali e potenziali.
A cura di Gianmarco Bizzarri e Chiara Carbone