Thomas Ostermeier, anche se è tedesco, non guarda molto l’orologio. È puntualissimo all’arrivo, ma sfora sempre alla fine dei laboratori. Con grande generosità concede sempre un’oretta in più della sua pausa pranzo per le prove e la discussione. Tagliato il tempo per l’intervista canonica davanti alla telecamera, ci ritroviamo in un ristorante rumorosissimo, insieme all’assistente Daniel Freitag e a Andrea Porcheddu, a parlare del ruolo dei critici nella sua carriera, da quando, diventato a 32 anni co-direttore artistico della Schaubühne, la più grande sala teatrale di Berlino, l’ammirazione e lo stupore generale si sono presto trasformati in una grande pressione di aspettative su di lui.
«Moltissimi critici – afferma il regista – soprattutto berlinesi, molto potenti e in grado davvero di orientare il pubblico in città, non aspettavano altro che io sbagliassi qualcosa, come per avere le prove che questa scelta non avrebbe funzionato. Così ogni spettacolo considerato meno buono, veniva additato come una prova contro di me».
Questo succede anche per i direttori più “anziani”: chiunque si prenda la responsabilità delle scelte artistiche si espone al giudizio dei critici…
Sì, ma per i giovani è peggio: perché se un giovane prende la direzione di un teatro, mette in discussione tutti gli altri. Così sembra che tutti possano essere rimpiazzati dai giovani. Questo è un tema tuttora centrale, perché i critici berlinesi – non quelli nazionali – sono ancora in collera con me, perché sono un giovane su cui hanno sbagliato i pronostici. E soprattutto perché loro non sono riusciti, con la loro scrittura, a far cadere la Schaubühne: questo mette in discussione il loro potere.
È per questo che non ama particolarmente i critici?
Devo dire che ho dei problemi, sì… E comunque a rileggere la storia dell’arte o del teatro, i critici, per lo più, non sono mai stati dalla parte degli artisti. Va detto che la situazione cambia per gli artisti stranieri: se a Berlino arriva un regista come Alvis Hermanis o altri, viene accolto come una star. C’è sempre il rischio che i critici mostrino come migliore il prodotto straniero. Credo che la critica abbia un gran potere nell’accompagnare i giovani registi e nel dare forza al loro lavoro. In Germania, con l’onda del ’68, c’è stato un periodo in cui i critici e i registi andavano sempre insieme, e insieme hanno combattuto contro le istituzioni e contro un certo spirito fascista, che è ancora presente. C’era una grande solidarietà tra loro, che è scomparsa completamente dalla nostra generazione: la solidarietà non esiste più, ed è un grande problema. I miei amici giornalisti si sono confrontati con la mia carriera, e hanno visto che loro non hanno posto nelle grandi redazioni, non guadagnano molti soldi, non sono diventati redattori capo: il mio esempio mette in discussione la loro carriera, e la loro reazione è cercare di farmi cadere. Altro che solidarietà! Ho sempre avuto l’impressione che il critico pensi che il regista sia qualcuno che, da solo a casa legge il testo, se ne fa una propria interpretazione, e poi la mette in scena come per esercitare la visione. Ma non è questa la mia idea di lavoro, che è invece assolutamente dipendente dagli attori. E lo è sempre di più, man mano che invecchio. Quello del regista è un mestiere giovane, nato appena 130 anni fa: forse è già il tempo di liberarcene! Ritengo che la buona riuscita nella maggior parte degli spettacoli che ho realizzato fosse merito degli attori. Anche il workshop veneziano è animato dall’idea per cui gli attori diventano davvero i creatori dello spettacolo.
Qual è il suo approccio metodologico? Possiamo dire che il punto di partenza sia l’improvvisazione degli attori?
Sì, anche se qui non siamo ancora arrivati a questo livello di lavoro. Ma è questo il vero approccio al testo drammatico: comprendere le situazioni di base, di cui io parlo moltissimo, per comprenderle insieme agli attori. Non do molte indicazioni. Non si tratta veramente di improvvisazioni, perché non sono completamente libere: sono piuttosto esercizi su esperienze vissute, situazioni. La ricerca che faccio con le biografie dei partecipanti ai laboratori, o con gli attori, serve a far comprendere che bisogna trovare un legame tra il testo e le loro vite: altrimenti rischia di diventare solo “teatro ben fatto” e gli attori sarebbero solo strumenti, e non persone comprese esse stesse nella narrazione.
Se l’esperienza è il punto di partenza, qual è il passaggio successivo? C’è un tentativo di portare all’eccesso la realtà sulla scena, in senso iperrealista?
Assolutamente no, perché penso che la vita sia sempre molto più forte di molte cose che vediamo sulla scena. Se siamo veramente sinceri, la vita è già più forte e più teatrale del teatro, non c’è bisogno di estremizzare. Certo, ci sono delle cose che succedono in teatro, in cui è necessario dilatare le distanze tra i personaggi, collocare gli attori in una sala dove il pubblico è in platea. Ma prima di tutto, sono interessato alla narrazione, all’idea dell’attore che racconta qualcosa della propria storia. Parlo di “storytelling”, ma nel senso del teatro epico di Brecht e anche nello spirito del teatro elisabettiano: un teatro aperto verso il pubblico. Così se faccio degli esercizi come avvenuto a Venezia, per arrivare alle proprie esperienze di vita, è perché credo che gli attori siano degli artisti, esattamente come gli autori e gli scrittori. Quindi, come tutti i grandi artisti, trovano nella propria vita la più grande fonte di ispirazione.
Qual è allora il momento in cui la creazione artistica subentra alla narrazione? Forse quando si prende coscienza dello spazio teatrale?
Non ho mai riflettuto veramente su questo. Forse lo faccio parallelamente: ci sono delle cose che so fare, alcune che mi interessano molto. Gli arrangiamenti, le luci, sono cose facili per me. Quello che mi interessa è arrivare a un punto in cui gli attori parlino veramente di qualcosa di proprio, in un modo in cui non ne hanno mai parlato prima. Ed è il momento in cui crollano i clichè teatrali. Non voglio che usino cose che hanno visto altrove a teatro: cerco un’espressione originale, nel senso della forma e del contenuto.
E come è andato il laboratorio? Come reagiscono questi attori ai suoi stimoli? Ci sono già forme di narrazione che la interessano?
Sono molto interessato, nel workshop, all’incontro con le persone: sono curioso di fare la loro conoscenza. Ho proposto molti esercizi e idee, ma solo con tracce di base, cercando di sfruttare l’energia del gruppo. Non posso prevedere i risultati del lavoro, ma è importante che gli allievi comprendano che il teatro per me, in questo momento, non è una forma o un risultato che si può mostrare o insegnare agli altri, ma è qualcosa in cui bisogna far attenzione a non cadere nei clichè, cosa che accade molto spesso altrove. Questo è il mio problema quando vado a teatro: riconosco i riferimenti, i maestri, gli originali, le influenze, ma non vedo vie nuove… È la ragione per cui preferisco lavorare con gli autori contemporanei, che esigono un nuovo modo teatrale, come Jon Fosse o Sarah Kane: scrivono in una forma cui non ti puoi avvicinare come faresti con Checov. È anche la ragione per cui amo molto, in questo periodo, lavorare su Shakespeare: trovo sia molto moderna la sua drammaturgia. È una follia inseguire le regole classiche del dramma, l’unità di tempo, luogo e azione: Shakespeare non le ha seguite! Uno degli aspetti del workshop è avvicinarsi al teatro elisabettiano sia come teatro epico, nella cui tradizione si inserisce Brecht, sia come un teatro assai vicino al nuovo movimento del teatro performativo, perché esige un contatto diretto col pubblico. Uno dei più grandi problemi della pièce di Hamlet è la ricchezza di “monologhi”: le parole sono indirizzate direttamente al pubblico. Per me Shakespeare è molto più moderno e vicino alla nostra realtà, quella della televisione, dell’entertainment, della performance, della musica, della cultura pop. Non mi interrogo sui “personaggi”. Per me esiste un teatro in cui bisogna raccontare la storia di Amleto: con il microfono, con la danza, col video, con tutti i media disponibili, ma anche col testo e con la scena. Poi c’è un teatro “postdrammatico”, ma è un teatro per niente moderno, perché ripete delle idee vecchie di trenta anni. Le forme bisogna trovarle per raccontare delle cose, e la forma deve venire dopo il senso.
Ho letto una sua intervista del 1999, rilasciata in occasione del debutto italiano di Shopping and Fucking, da Mark Ravenhill, proprio alla Biennale Teatro di Venezia, allora diretta da Giorgio Barberio Corsetti. Parlando di modernità, aveva dichiarato che la volgarità era il fenomeno che – insieme all’accelerazione – aveva caratterizzato gli anni Novanta, e che la nuova direzione del teatro avrebbe recuperato il senso del pathos e del tragico. Adesso che si sta chiudendo il decennio, trova conferma di questo? Quali sono state le parole chiave del suo teatro nel nuovo millennio?
Paura. È sicuramente la keyword di questo decennio. Ma anche l’accelerazione resta un problema di forma: i video musicali o i film – come Matrix ad esempio, anche se è datato – impongono un movimento per gli occhi così rapido con cui il teatro non può entrare in competizione.
Ma allora, per dare qualche definizione: cosa è per lei la messinscena?
È comunicazione. Attraverso tutte le verità disponibili: la verità del testo, degli attori, della scenografia, dei costumi, e anche della vera vita, i nostri sentimenti, le esperienze, il nostro sguardo sulle nostre vite. Per esempio, ho l’impressione che nei nostri sentimenti e nelle nostre speranze, e anche nelle relazioni umane, siamo molto più cinici e disincantati rispetto agli attori in scena. Quando arrivano sulla scena, gli attori hanno sempre una falsa idea romantica di quello che fanno: e quindi la vita che vedo in scena spesso è falsa e romantica. La vita vera è molto più cinica e materialistica: vorrei portare questa verità sulla scena, nel senso che voglio una narrazione realistica delle nostre relazioni umane.
Per restare alle definizioni, vorrei sapere quali sono le definizioni date al suo teatro che preferisce. Ne ho qui una lista, presa da diverse recensioni ai tuoi spettacoli: teatro fisico, neo-borghese, epico, politico, erotico, iperrealista, hard core e punk…
Mi piace molto “teatro fisico”, non ho niente contro. “Teatro neo-borghese” credo si riferisca all’allestimento di John Gabriel Borkman di Ibsen che cercava di essere uno specchio della nostra generazione. Anche “teatro epico”; perché no? L’avranno scritta per qualche messinscena di Shakespeare, o anche di pièce contemporanee. “Teatro politico”: mi piacerebbe molto, ma non so bene cosa sia. Credo che già il “teatro neo-borghese” possa in qualche modo essere considerato “politico”, perché è una presa di coscienza collettiva della nostra generazione: se si vede rispecchiata sulla scena e si rende conto che la nostra mentalità somiglia a quella dei borghesi della fine del XIX secolo, è già un risultato politico. “Teatro iperrealista”: sì, mi piace… “Teatro erotico”, spero bene! Mi piacerebbe molto! Credo che possa riferirsi agli spettacoli su testi di Sarah Kane. “Teatro hard core e punk”: mi piacciono molto, anche se non ne vedo più, ma sarebbe bello, sì!
E parlando del contributo musicale ai suoi spettacoli, del cosiddetto “soundscape”, vorrei sapere quanto la musica faccia parte della sua formazione, se ci sono per lei dei modelli o dei generi di riferimento. E a partire dalla musica quali sono i suoi modelli e maestri di riferimento, nel teatro, nelle arti visive, nel cinema. Ma per cominciare: cosa ascolta di solito? Cosa c’è nel suo iPod?
A dire il vero non ascolto molto la musica, perché la maggior parte del tempo, quando sono solo, preferisco il silenzio. Ma mi piace considerare glispettacoli una specie una jam session, con più elementi: c’è il testo, ci sono gli attori, ci sono io, c’è Daniel, c’è il video… Poi, proprio come in una jam session di musica, si ascoltano bene gli altri: bisogna “giocare” con tutti gli elementi, mai “giocare” soli con se stessi. È la ricerca della comunicazione, non solo con le parole, ma anche con il teatro, la musica, le luci, le immagini. Si potrebbe addirittura parlare di teatro musicale, nel senso che i principi con i quali lavoro sono gli stessi del teatro musicale: la rappresentazione è una sorta di partitura, e le azioni producono della musica. È anche vero che adoro lavorare con i musicisti. Credo che ci sia una ingiustizia nel mondo dell’arte: ho molti amici musicisti, sono dei grandi artisti, ma non arrivano a guadagnarsi da vivere con la loro arte. Ci sono invece molti attori, che non sono dei grandi artisti, ma che guadagnano moltissimo col loro lavoro, nel cinema o in televisione, o anche in teatro. È un’ingiustizia. Sono un grande ammiratore dei musicisti contemporanei, che non entrano nel mercato dell’arte e della cultura pop, pur essendo dei virtuosi coi loro strumenti.
Mi rendo conto che c’è un grande squilibrio tra i musicisti e i teatranti. Per questo sono molto esigente con gli attori, quando devono apprendere il testo o ripetere le scene, come se la messa in scena, la partitura, fosse una sorta di musica che deve essere provata e riprovata. Ammiro dei gruppi musicali che sono da una parte estremi e radicali nella loro espressione, ma allo stesso tempo virtuosi. Adoro questo: il virtuosismo e la radicalità. Per esempio John Zorn, o molti americani della generazione hard core, come i Fugazi. Amo molto questo noise: mi piacciono le persone che sanno fare bene le cose, e che fanno anche noise.
Direi che è coerente col suo lavoro! E negli altri campi? Quali sono i suoi gusti?
Di recente ho visto la mostra di Basquiat a Parigi: non c’è molto altro da aggiungere… Per la Biennale ho presentato il lavoro di Oda Jaune, una pittrice bulgaro-tedesca che amo molto. I maestri di teatro? Non mi piace dire chi sono i miei maestri: mi piace citarne uno, morto 12 anni fa, Reza Abdoh. Era veramente super. Poi sono un grande ammiratore di Romeo Castellucci e Rodrigo García. Per il cinema ce ne sono tantissimi, ve ne dico solo alcuni: Cassavetes, Fassbinder, i fratelli Dardenne, i fratelli Coen…
Un’ultima domanda, sul titolo del laboratorio fatto a Venezia: “Recitare Amleto e farne una performance. Avvicinarsi al dramma classico come performer e come attore”. Qual è la differenza?
Il performer si assume la responsabilità di tutta la storia, per tutta la durata della narrazione. È una specie di autore del proprio testo e della propria storia, che non dimentica mai la realtà della sala in cui si trova. Non è nella situazione della pièce, ma piuttosto agisce nella situazione con il pubblico, col quale condivide la storia della pièce: la trasmette, la spiega e la racconta attraverso se stesso. Non come un medium, ma piuttosto come un vero entertainer. Gli attori, invece: anche loro hanno una grande forza, sono “gli specialisti delle situazioni”, come dico sempre. Sono dei professionisti che conoscono le situazioni. Quando dico a un attore: “immagina che tua madre sia morta”, lui ha la capacità professionale di immaginarselo e di reagire. Questo non vuol dire che i performer non siano in grado di farlo: in effetti sin dal titolo del workshop mi ponevo l’obiettivo di provare a sovrapporli e di far coincidere le due figure. La differenza tra loro non è di tipologie professionali, è solo nella loro concezione della scena, e del loro ruolo davanti al pubblico.
Fabiana Campanella
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