Parlaci un po’ del tuo lavoro di artista…

In realtà, a livello puramente semantico, questa domanda mi manda un po’ in crisi. Mi manda in crisi perché il mio lavoro è un altro: io sono sound designer e faccio il mestiere del collaboratore esterno. Lavoro soprattutto in teatro e in quel contesto è il regista che si assume il grosso della responsabilità dello spettacolo. In questo caso, invece, presento la mia prima opera mettendomi in gioco come artista, ideatore e performer. È strano per me che per tutti questi anni sono stato dietro le quinte! Ma è anche naturale per una serie di motivi. Se mi vuoi bene, uccidimi prende le mosse da tre mie spinte profonde. La prima, quella più intima, è la dipartita di mio papà, che a gennaio se ne è andato. Questo fatto, al di là di quegli elementi che ci accomunano tutti e di cui è inutile parlare, ha iniziato a farmi fare delle domande: che senso ha la vita di qualcuno per gli altri? Qual è il suo lascito? Cosa farò a partire da quello che ho ricevuto?

Il secondo elemento è il grande tema del giorno da qualche anno, ovvero quel che sta succedendo in Italia. È un tema che si può analizzare dal punto di vista partitico o, come cerco di fare io, da un punto di vista equidistante, dal quale mi chiedo nei termini più generali cosa sia accaduto. Perché abbiamo determinati uomini al potere adesso? Perché oggi quando sento un’intervista di Almirante, che è la cosa più distante che possa esistere da me, sento parlare un galantuomo, sento parlare qualcuno che fa un ragionamento, che ha delle idee, che ha il senso dello stato?

Il terzo elemento, quello che salta più all’occhio nell’opera, è una mia passione un po’ irrisolta per Roberto Baggio. Ecco che ci siamo arrivati, alla fine, a Baggio! Perchè per arrivarci bisogna partire dalle fondamenta e Baggio è il tetto. Per come son fatto io, faccio fatica ad accettare il fatto che Baggio non giochi più a calcio. Faccio fatica ad accettare il fatto che abbia avuto così poco dalla sua carriera rispetto a quel che valeva. Ha vinto un pallone d’oro, tre campionati, una coppa UEFA e non so che altro: poca roba per  il più grande giocatore italiano di tutti i tempi! Per darvi un’idea, l’Avvocato Agnelli lo chiamava Raffaello, tanto è vero che Del Piero, che lui riteneva fortissimo, ma non un grande artista come Baggio, era Pinturicchio. Ora, se avete presente il gioco di Del Piero, dovreste capire che cosa dovesse essere Baggio.

A partire da questi elementi ho tratto un’equivalenza un po’ strana. Ho fatto una cosa simile al pastafarianesimo che, per prendere in giro il concetto di correlazione, mette in parallelo il fatto che man mano che nel mondo ci sono sempre memo pirati, c’è sempre più inquinamento: ho dedotto che, da quando Roberto Baggio si è ritirato dal calcio, l’Italia è sprofondata, sia da un punto di vista calcistico, sia come società. È come dire: possibile che senza il talento di Baggio non ce la facciamo più? Qui cerco di celebrare il funerale del campione, che è il funerale di quel qualcosa che ci manca: il talento valorizzato. Da lì nasce l’invito a capire che nelle macerie in cui ci troviamo ora è bene celebrare l’Italia che è stata e aspettare che arrivi qualcosa di nuovo alla sua altezza. A tutto questo si collega la questione di mio padre: lui è stata una presenza estremamente positiva nella mia vita e qualunque cosa io sia, con il suo solo modo d’essere, l’ha potuto valorizzare. Lui ha posto le basi di quel poco talento che ho. Ho invece l’impressione che l’Italia, oggi, non si stia comportando altrettanto bene con i suoi figli.

Come vivi il contesto di Milano? 

Io vivo a Milano da tre anni e vengo da Latina. Tu dirai: perchè non sei andato a Roma allora, che è tanto bella? Ho l’impressione che qui a Milano i cosiddetti “giri” siano più permeabili, diversamente da Roma che è una città che composta sì da persone molto accoglienti, ma che poi difficilmente ti permette di entrare in determinate orbite. Roma ha un tessuto sociale atavicamente nobiliare. Se vai a vedere artisti in tutti gli ambiti che provengono da Roma sono novanta volte su cento “figli di”, anche gli esempi più belli. Secondo me Milano è più fluida, perchè Milano è per l’italia quello che New York è per il resto del mondo: si confluisce lì, non importa chi sei. Quel che vali ti viene più facilmente riconosciuto. Prima di arrivare a Milano fare il sound designer era la cornice, mentre la ciccia era fare il tecnico. Invece quando ho fatto uno spettacolo con una compagnia di Milano le persone hanno iniziato a chiedermi di lavorare insieme e ho cominciato a credere che, per una volta, mi sarebbe capitato di fare quel che più mi piaceva, e infatti è successo.

Come si colloca la tua installazione nel contesto più teatrale di HORS?

La funzione dell’installazione, in un contesto in cui ci sono degli spettacoli, è quella di dare significato a un luogo che altrimenti è soltanto un luogo di passaggio. Il palcoscenico riceve significato ogni volta che viene calcato da una compagnia, ma questo è scontato e non serve sottolinearlo. Tutto però finisce con lo spettacolo, e la gente se ne va a casa. Ma qui la gente si muove da un luogo all’altro del teatro attraversando l’installazione, che si pone al crocevia tra bar e sala (un foyer d’eccezione, visto che nominalmente il foyer dovrebbe essere una stanza chiusa). Lo scopo non è che le  persone vi entrino appositamente per entrare, ma che vi si trovino dentro. Poi possono restare o andarsene: è un attraversamento rispetto al quale prendere delle decisioni, nessuna della quali è “giusta”. A un certo punto, magari, succederà qualcosa.

A questo proposito, come vorresti che le persone se ne andassero dalla tua installazione? 

Nel migliore dei casi o nel caso prototipo che ho in testa vorrei che se ne andassero responsabilizzati. In realtà però immagino modi diversissimi di esperirla. È importante soprattutto che il modo in cui le persone percepiscono e reagiscono alla mia opera arrivi a me. Questa cosa l’ho esperita quando facevo il docente: spesso sei tu che ricevi qualcosa. Qui ancora di più perchè non c’è una gerarchia, e l’artista è una persona tra altre persone. Io voglio arricchirmi di quello che vedo succedere con gli altri. Non sto io al centro. Quello che voglio dire fa parte del processo artistico, e al limite ci faccio un dossier, che fa molto artista europeo e che però è solo per gli addetti ai lavori. È come lanciare un sasso: qualcuno reagirà a questo sasso e succederanno altre cose. Forse tu non puoi capire me e io non posso capire te, però facciamo succedere delle cose. Credo che una persona non capisca un’opera, ma inventi un ragionamento sull’opera che vede, ed è quello il suo senso, non quello che intendevo l’artista nel crearla.

a cura di Lidia Melegoni