L’intervista di Roberta Ferraresi (www.iltamburodikattrin.com) a Romeo Castellucci.

Romeo Castellucci ha passato a Venezia una settimana impegnativa: dal 12 al 16 ottobre, infatti, ha condotto, negli spazi del Teatro Piccolo Arsenale, il primo dei laboratori voluti dai Alex Rigola per la Biennale Teatro 2010. Cinque giorni di lavoro intenso sulla presenza dell’attore e sul processo di creazione che hanno coinvolto tredici allievi delle provenienze più varie. Fra il palco e la platea del teatro si sono sperimentate la diversa consistenza dell’immagine, i diversi livelli di azioni coinvolti nel lavoro attoriale, i percorsi possibili di ideazione teatrale e le trasformazioni che plasmano l’idea nel suo incontro con la realtà del palcoscenico.

Nella luce incandescente dell’ultima mattina di lavoro veneziano, questa conversazione con Romeo Castellucci si rivela un incontro per entrare – per altri versi oltre quelli già esplorati in forma diaristica – all’interno del processo creativo del regista cesenate: per contestualizzarlo e aprirlo, infine, ad un vero e proprio incontro con il mondo teatrale e non solo – capace di raccogliere in un’unica vertiginosa prospettiva tutte le suggestioni colte in questi giorni.

Alex Rigola sta chiedendo ai Maestri coinvolti di raccontarsi anche attraverso film, poesie, immagini: qualcosa, insomma, che esuli dal teatro e dal palcoscenico. La prima domanda, allora, è extrateatrale: qual è il suo libro preferito?

Più che un libro, si tratta di un autore a cui sono molto legato: David Foster Wallace. Ha un registro completamente diverso dal mio, ma forse proprio per questo mi colpisce molto. In particolare Infinite Jest, ma anche Questa è l’acqua, una raccolta di piccoli scritti dove parla anche della figura dell’artista, del fatto che ogni artista si deve rivolgere alla gente…

Entriamo nel merito del suo lavoro: si è parlato spesso del ruolo delle immagini e lei stesso le indica come fondamento del processo di creazione. In questi giorni di lavoro veneziano, inoltre, le immagini hanno occupato una posizione di tutto rilievo all’interno della ricerca laboratoriale. Cosa intende, dunque, per “immagine”?

L’idea stessa di immagine si sposta in continuazione: è per antonomasia delocata. Non ho una risposta precisa sul suo statuto. Si tratta dunque di una vera e propria ricerca dell’immagine, che va continuamente tratta ed evocata. Cosa sia esattamente è difficile dire: non è ancora un simbolo, né già una metafora. È molto semplice e non ancora organizzata. In sé è qualcosa di universale, che non appartiene a una persona. Probabilmente è ciò che riesce a fermarti, che arresta il tuo cammino, che richiama la tua attenzione.

Come avviene l’incontro con le immagini? E come vengono poi trattate, lavorate e messe in relazione tra loro?

Ancora una volta, purtroppo, non ho una risposta precisa. In certi casi, esattamente come una pietra preziosa, l’immagine va liberata da tutto ciò che le sta intorno, dalla materia inerte, dalla terra. E si porta alla luce. Poi – per rimanere nella metafora – si può cominciare a lavorare intorno alla sua struttura, creando delle sfaccettature in modo tale che possa essere attraversata dalla luce ed essere visibile.

Diciamo che si creano – fuor di metafora – delle strade privilegiate. Lavoro molto spesso con gli appunti: ho dei quaderni in cui raccolgo sensazioni dalla provenienza più varia. Si tratta di materiale spurio, completamente caotico. Rileggendo, mi accorgo che si presentano delle forme di richiamo, di magnetismo, fra una nota e l’altra: questi elementi si raccolgono, formano dei nodi, che creano a loro volta costellazioni, che vanno unite con dei tracciati, delle linee, dei disegni. E sono queste connessioni che formano, ad esempio, un’azione teatrale. Ciascun elemento scenico può contribuire a creare queste minime costellazioni. L’abbiamo fatto anche in questi giorni di laboratorio: un oggetto, un movimento, un suono…

Questo lavoro di composizione ha a che fare con il montaggio?

Sì. Ma bisogna essere cattivi per fare un buon montaggio: è una hybris. Si accoglie con pazienza un’immagine con una giusta intonazione, attendendola e cercandola; quando la si possiede, finalmente, occorre affilare questa forma. Ne abbiamo parlato anche durante il laboratorio: si tratta di affilare un’arma, in modo che penetri più profondamente nel corpo dello spettatore. Ed ecco, questo è il montaggio: si tratta di preparare un dispositivo il più invisibile possibile – il sistema non dovrebbe essere così riconoscibile.

Il montaggio è un sistema perfettamente retorico: data una serie di elementi, si crea – non voglio dire un “discorso” – una specie di chimera che deve aggredire o invadere lo spettatore. Con “invasione” non intendo nulla di violento: si può penetrare molto dolcemente dentro il corpo dello spettatore. Ma certamente lo si deve fare. Per la stessa ragione per cui Wallace dice che non ha senso scrivere per se stessi, non ha senso fare il teatro per se stessi: l’obiettivo dell’arte – non è neanche un obiettivo, direi forse che è molto più lecito parlare di destino – è quello di essere condivisa, di essere prodotta per l’altro. Dunque c’è un movimento verso l’altro, ma qual è il movimento? Non è l’invasione: e il montaggio, allora, è questa chimera, questo animale mostruoso, composto da mille parti, che si deve insinuare e deve essere fine, raffinato, violento.

In teatro, ancora più che nel cinema, sono convinto che – non è una mia idea, è una vecchia idea, basta leggere Ejzenštejn – due oggetti montati producano un terzo oggetto che non c’è, che è il fantasma, che appartiene completamente allo spettatore. Questa è la cosa più interessante e probabilmente è il vero oggetto.

Ha parlato spesso dello spettacolo come della creazione di un mondo. Come si definisce questo mondo nel momento delle prove, che sono un passaggio intermedio fra l’ideazione e lo spettacolo vero e proprio?

Le prove sono per me un momento di grande resistenza. È un momento di caduta – la caduta degli idoli che uno si è fatto in testa. Prima c’è un progetto mentale – credo moltissimo nella forza delle idee, però credo anche moltissimo nella sua contraddizione, che è costituita dall’incontro con la realtà. Penso alcune cose rispetto ad oggetti, persone, animali: costruisco un montaggio perfetto, prima di cominciare le prove devo avere la consapevolezza che lo spettacolo sia già finito.

Quando incontro le persone mi accorgo che non è affatto vero, che è un’illusione: essi modificano – vorrei dire “corrompono” – questo palazzo mentale, portando cose e distruggendone altre. Ad esempio, solo il modo di camminare di una persona è per me un elemento fondamentale: ciascun attore ha intorno a sé una mandorla di sensazioni, per esempio rispetto allo spazio e al tempo, che non posso assolutamente modificare.

Attraverso di loro e quindi attraverso questo momento di resistenza che trasforma l’idea, si arriva a costituire un sistema di pensiero, logico, parallelo al mondo reale. Il teatro è una sostituzione violenta della realtà con un altro tipo di realtà. In questo senso il teatro è sempre una minaccia alla realtà “reale”, perché la si può sospendere soltanto attraverso pezzi di reale che vanno conquistati con la messinscena.

In questo contesto il laboratorio può essere un’esperienza importante: in che senso e in che termini?

Secondo me è importante vedere come reagiscono persone poste di fronte ad un certo numero di problemi che possono essere legati al tempo, al ritmo, all’immagine, alla sensazione. Ovvero: persone che sono dunque gettate in un posto comune.

Mi piace vedere come reagiscono le persone diverse da me, in questo caso più giovani. Gli esercizi che propongo sono semplici, ma è nei dettagli che si rivelano molte più cose. Mi piace molto creare dei piccoli problemi. Ad esempio esercizi con pochi elementi, alcuni molto banali – come dei calzini – altri di un certo peso ontologico, come il sangue. Non ho l’atteggiamento pedagogico di chi deve insegnare, non saprei da dove cominciare: mi piace di più gettare in mezzo a noi un problema e vedere cosa succede…