«Io ti dono un massaggio, tu cosa puoi donarmi?»: questa domanda semplice e spontanea è il primo passo con cui Elisabetta Consonni innesca il movimento delle alleanze. Il suo progetto Special Handling nasce dall’incontro con le donne del centro multiculturale Spazio Socialità, un luogo di scambio e formazione per le donne, per lo più di origine egiziana e bangladese, che frequentano il parco Trotter. Un percorso che punta a restituire valore alle pratiche di cura, nella convinzione che condividere i saperi non convenzionali e non funzionali – le cose che ciascuna fa semplicemente perché la fanno stare bene – generi preziose relazioni. Sintesi di questo percorso – che ha incluso pratiche quali cucire, intrecciare, danzare – sarà una tenda, che ospiterà i manufatti frutto delle competenze delle donne e la proiezione di un video, dando vita a uno “spazio di intimità nello spazio pubblico”.
Innumerevoli temi sono posti all’attenzione dal lavoro di Consonni, alla quale abbiamo chiesto di approfondirne alcuni.
«She choreographs everything»: sono le prime parole in cui si imbatte chi cerchi Elisabetta Consonni su Google. Ma non è di coreografia nell’accezione più scontata del termine che possiamo parlare, per un lavoro come Special Handling. Partiamo allora da qui: cosa significa per te coreografare?
È proprio questo il punto. Da coreografa, il mio interesse è sempre stato lavorare attorno a dei contenuti attraverso la composizione di movimenti nello spazio, il che non è prerogativa esclusiva del coreografo in teatro.
Oggetto della mia attenzione è soprattutto lo spazio tra le persone, che può significare tante cose: lo spazio fisico e misurabile, certo, ma anche lo spazio di una possibilità di relazione. Ed ecco le “alleanze dei corpi”: l’idea è proprio quella di creare le condizioni per cui delle relazioni tra persone siano possibili, e in questo riconosco un’idea forte di coreografia.
È per valorizzare questo aspetto del mio lavoro che in Special Handling mi sono posta come una sorta di community-manager, con il compito di conoscere il territorio e attivare collegamenti al suo interno: mi entusiasmava applicare al territorio la stessa competenza che ho sempre usato nel far muovere gruppi di persone nello spazio.
Perciò mi riferisco sempre al concetto di “coreografia espansa”, esplorato tra gli altri da Mårten Spångberg, che propone di pensarla non solo come articolazione di movimenti nello spazio, ma come un sistema di organizzazione, anche sociale e politica: il fluire del movimento, la reciprocità, la relazione, sono tutti elementi che si riconoscono tanto nella coreografia quanto a livello sociale.
Quello che dici mi riporta a una riflessione sull’architettura, la quale necessita più che mai di abbandonare la propria oggettualità e formalità per progettare piuttosto i nessi spaziali e fisici “tra le cose” partendo dal movimento delle persone nello spazio. Steven Holl scrive che il movimento del corpo è l’elemento di connessione tra noi e l’architettura; allora anche l’architettura dovrebbe partire dal coreografare…
L’evoluzione del mio lavoro ruota attorno a questo. Nel 2013 ho iniziato a interessarmi di architettura: ero stata selezionata per un progetto in Polonia insieme a un architetto, con il quale abbiamo cercato di far dialogare testi di architettura e di danza. Nel blog del progetto Ergonomica, che aggiorno frequentemente, raccolgo tutte le riflessioni sulla relazione tra costruzione dello spazio attraverso l’architettura e costruzione dello spazio attraverso la coreografia. Da allora, la mia attenzione si è rivolta a come uno spazio costruito architettonicamente consenta o meno delle relazioni. Ti voglio un bene pubblico [n.d.r. progetto di Elisabetta Consonni tenutosi in varie città, che consiste in un gioco urbano volto a far riflettere sulle barriere architettoniche dello spazio pubblico] nasce proprio a partire da questo interrogativo: quali sono le infrastrutture che permettono o meno l’incontro all’interno dello spazio urbano? È a seguito di questa ricerca che ho iniziato a interessarmi non tanto alla formalità dell’architettura e della coreografia, quanto le relazioni che entrambe possono creare.
Al centro dei tuoi lavori vi è quindi lo spazio in-between: lo spazio relazionale dove avviene l’incontro e lo scambio…
Esatto, anche nelle performance in teatro io lavoro sempre sul sistema spaziale e di relazione tra le persone, molto spesso a scapito del movimento danzato. In questi giorni sono a Firenze per il festival Cantieri Culturali, diretto da Virgilio Sieni, all’interno del quale presenterò Plutone Esploso: si tratta di un lavoro quasi sciamanico e molto poetico, ma basato tutto su un singolo pattern spaziale che permette o meno degli incontri.
Per quanto riguarda invece la relazione con il luogo: è evidente il tuo interesse per lo spazio pubblico. Cosa ha significato lavorare nella zona di via Padova per Special Handling?
È un quartiere molto interessante con il quale ho instaurato relazioni profonde grazie alla sua generosità in termini di multiculturalità e spontaneità. Sono contenta perché ho avuto l’opportunità di lavorarci per un lungo periodo, per la precisione dal 2019: una possibilità, questa, molto rara, purtroppo. Ogni progetto produce dei derivati che sarebbe bello cogliere e sviluppare, ma poi termina il tempo a disposizione e sei costretta ad abbandonarlo. Con Special Handling, invece, sto riuscendo a raccogliere i frutti, che nascono pian piano, di un lavoro lungo e paziente di ascolto. Mi rendo conto che quando hai a che fare con comunità di cittadini tutto acquisisce un senso più grande, ogni sperimentazione svolta in sala o in teatro esplode a contatto con la realtà: da qui il mio amore per lo spazio pubblico. Ecco, credo che per me la differenza tra il lavoro nello spazio teatrale e quello nello spazio pubblico sia come quella tra teoria e pratica…
A proposito di teoria e di pratica, nell’ Incontro Digitale del 24 giugno moderato da Viviana Gravano e Giulia Grechi, avete parlato di gerarchizzazione dei saperi, del modo in cui l’ideologia capitalista li incasella secondo un criterio di mera “utilità”, e di come la pratica obblighi a rimodulare ogni riflessione teorica precedente. Come pensi che la pratica di Special Handling abbia influenzato le tue riflessioni teoriche precedenti?
Sono affascinata sia dalla pratica che dalla teoria, perciò mi muovo su entrambi i fronti, finché non arriva un momento in cui le due linee si incontrano. Nel caso di Special Handling, entrare in contatto con le donne di Spazio socialità e scoprire le pratiche di cui erano silenziosamente – e a volte inconsapevolmente – detentrici mi ha permesso di cogliere davvero tutte le implicazioni del concetto di “sapere invisibilizzato” che un contributo di Daniel Blanga Gubbay aveva portato alla mia attenzione. È una questione di potere: questi saperi sono invisibili perché detenuti da individui marginalizzati, e perché sono, nelle logiche del mondo in cui viviamo, irrilevanti.
Lavorare in questo contesto ha arricchito la mia consapevolezza sulle dinamiche che invisibilizzano, su quelle che minacciano il mio stesso lavoro in quanto artista, sul margine di resistenza che ho io e su quello di queste donne, i cui desideri sono stati schiacciati e resi invisibili a loro stesse.
Io ho voluto dedicare tempo e spazio alle loro pratiche. Con Fatyma abbiamo intrecciato un tappeto, che certo non cambierà il mondo, ma noi gli abbiamo dato l’importanza che si dà a un progetto, di cui proprio Fatyma ora è il capo: e un capo agguerrito!
Quando lavoro con queste donne non faccio riferimento a riflessioni teoriche: trovare i concetti e le parole giuste è una parte del mio mestiere che adoro, ma la pratica è un’altra cosa. Arriva a tutti, anche a chi non parla l’italiano, permette di condividere e di “accordare il passo”: con alcune delle partecipanti sono nate vere amicizie e scambi che hanno permesso a loro di riflettere su certe cose, a me di capirne altre. È davvero il potere delle alleanze.
Chiara Di Guardo, Anna Farina, Francesca Marmonti
Questo contenuto fa parte dell’osservatorio critico Raccontare le Alleanze