«Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri il cammino che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie risate. Vivi gli anni che ho vissuto io e cadi là dove sono caduto io e rialzati come ho fatto io». Il celebre aforisma pirandelliano, raccolto ne L’uomo dal fiore in bocca e altre novelle, sembra quasi aver ispirato l’architettura scenica immaginata dal regista e attore Michele Di Giacomo per lo spettacolo Io sono mia moglie: uno spazio abitato da decine di scatole da scarpe, un luogo della memoria per incontrare l’altro.
Unico attore in scena, Di Giacomo veste i panni di Charlotte von Mahlsdorf, un’antiquaria tedesca transgender (al secolo Lothar Berfelde) nota per aver fondato e curato il Gründerzeitmuseum di Berlino-Mahlsdorf: il testo, per la prima volta tradotto e rappresentato in Italia, è di Doug Wright (Premio Pulitzer per la drammaturgia nel 2004). Classe 1962, l’autore americano si forma nel sud-est degli Stati Uniti, nell’area della cristianissima e moraleggiante Bible Belt, e si trova così a dover affermare in questo contesto la propria identità di omosessuale; anche per questo, forse, si mostra in grado di guardare con particolare sensibilità al tema queer in tutte le sue manifestazioni. Doug, giornalista e scrittore, compare anche come personaggio del racconto (sulla scena è incarnato dallo stesso Di Giacomo): mentre cerca materiali su Charlotte von Mahlsdorf, rapito dalla singolarità della vicenda, il reporter intesse con lei una fitta corrispondenza, e inizia un lungo ciclo di interviste audio, rigorosamente registrate su audiocassette per non smarrire nemmeno un frammento della memoria della donna. E dove conservarle meglio se non in una scatola di scarpe?
Le linee temporali presentate sulla scena si stratificano e si contaminano: c’è un’antica casa di bambole che consente di immaginare il museo di Charlotte in tutta la nostalgica materialità degli anni ’40; e poi il mangianastri delle interviste, che ci riporta alle soglie degli anni 2000, quando l’illusione di essere salvi dalla violenza delle guerre e della discriminazione pareva più concreta. I brandelli di storia, come paia di scarpe da indossare, formano un mosaico prezioso di cose che furono, di ricordi sofferti, di gesti coraggiosi e di speranze. Attraversare la storia di Charlotte – sopravvissuta al nazismo e poi al comunismo sovietico indossando abiti femminili, collezionando oggetti antichi ma soprattutto offrendo rifugio alla comunità omosessuale tedesca della seconda metà del Novecento – significa non solo viaggiare attraverso decadi burrascose ma anche attraverso i corpi delle persone che hanno avuto a che fare con lei. Anche per questa ragione, Di Giacomo dà vita ad un racconto policromo, un caleidoscopio di lingue, voci e generi; il nutritissimo catalogo di personaggi rischia, talvolta, di rinunciare alla complessità dei singoli caratteri, in favore però di una molteplicità di sguardi.
Il cuore dello spettacolo, tuttavia, risiede nella tensione a raccontare una figura non raccontabile: né l’inchiostro, né le registrazioni audio sono in grado di fornire una narrazione esaustiva di una donna nata uomo, parricida, innamorata, opportunista e coraggiosa. Eppure, proprio grazie alla dimensione corporea del teatro, abbiamo la sensazione di poter indossare le scarpe di Charlotte, di sentire ogni piccola sua vescica, ogni lacerazione del tessuto, ogni suola consumata danzando valzer viennesi nel locale clandestino della sua casa museo. Sentiamo la fatica sostenuta dal coraggio, ma soprattutto – ed è questo l’impulso forte che anima la regia di Di Giacomo – sentiamo l’urgenza di credere che storie come la sua possano ancora esistere, storie capaci di immortalare la nostra natura imperfetta. Non abbiamo forse ancora bisogno, come accadeva al tempo dei cantori, di definire noi stessi e la realtà che ci circonda attraverso il racconto e il mito?
Ivan Colombo
in copertina: foto di Matteo Toni
IO SONO MIA MOGLIE
di Doug Wright
tradotto, diretto e interpretato da Michele Di Giacomo
scene Riccardo Canali, luci Valentina Montali, suono Marco Mantovani
assistente alla regia Iacopo Gardelli
direttore tecnico Massimo Gianaroli
capo elettricista Valentina Montali, fonico Marco Mantovani
scene realizzate da Mulinarte
produzione Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale
si ringraziano Musicalia Museo di Musica Meccanica di Villa Silvia-Carducci per la concessione degli strumenti per la registrazione sonora e Silvia Masotti per la collaborazione alla traduzione
produzione originale di Broadway presentata da David Richenthal