La celebrazione di un rito: questo è l’arte della Socìetas Raffaello Sanzio. Claudia Castellucci con il suo Verso la specie conferma la vocazione, il destino – si potrebbe forse dire il δαιμον – della compagnia, portando in un luogo multiforme, simbolo di un’arte legata alla comunità quale l’Exatr di Forlì, uno spettacolo potente, arcaico. E forse fin qui nulla di nuovo.

Lo spazio
Uno dei tendoni neri che dividono in sale provvisorie questo ex deposito per corriere costruito nel 1935 – oggi convertito in centro polifunzionale – si scosta rivelando il luogo della performance. Un allestimento minimo, solo qualche cuscino nero e il palcoscenico vuoto, sottolinea il fascino industriale e decadente dello spazio, tra muri scrostati, vetri rotti e postazioni di lavoro abbandonate. L’Exatr parla già di per sé, sussurra al corpo del pubblico sensazioni di un tempo passato, ma non ancora finito, mostrandosi spazio denso in cui la creazione artistica può con forza squarciare il velo del reale, far intuire ciò che sta dietro un singolo movimento e, oltre, i processi a cui la nostra società è sottoposta. Di fronte a quello spazio vacante si percepisce una libertà espressiva esplosiva, ma trattenuta: è l’artista a poterle dare nuova linfa, riconoscendo questa mescolanza di pieno e vuoto, di tempo e pausa può renderla, di nuovo, forza significante.

Il rito
Nei loro abiti scuri identici, austeri, da riforma protestante, danzatori incappucciati – gli allievi della Scuola Mòra e i seminaristi del corso Esercitazioni ritmiche a Forlì – entrano nella sala in processione guidati da quello che sembra un Gran Maestro. Mentre questi li abbandona una musica ritmata, dalle basse vibrazioni sembra farsi strada nei loro stessi corpi. La danza che ne scaturisce è puro ballo e non “narrazione di”: questo spettacolo coreico più che racconto si rivela allora incontro originario, condivisione della prospettiva di ogni danzatore in scena che, nel suo essere tanto simile all’altro, si staglia, differenziandosi attraverso un’individualità profonda, quasi marcata interiormente. Dal gesto di una mano, se non di un dito, da ogni passo fino al singolo sguardo, ogni movimento risalta, denso di un’irrequietezza atavica che non concede di fermarsi. Ogni scelta del singolo danzatore si fa scelta obbligata anche degli altri, in uno scambio continuo, in uno specchiarsi perpetuo, metafora della sopravvivenza di ogni specie.

Il ritmo
Ogni rito ha bisogno del suo ritmo e quello di Verso la specie è viscerale, rimbomba con i battiti del cuore, fa vibrare organi e pensieri, ipnotizzando la visione dello spettatore in una sorta di riposo vigile dello sguardo. Allo stesso modo i danz-attori in scena, circolarmente, con movimenti nitidi, gesti speculari, immergono chi guarda in un caos ordinato simile allo sdoppiarsi cellulare nella meiosi, dove da una singola cellula madre ne nascono di differenti, seppur nell’aspetto identiche. In quell’apparente disordine si assiste alla germinazione di ogni gesto e al suo fluido manifestarsi da cui sembrano scaturire i bassi amplificati e reiterati che compongono la partitura musicale a cura di Stefano Bartolini, tanto primordiale da farsi inedita.

La geometria
Il cerchio, figura archetipica senza fine né inizio, è il segno da cui nasce e a cui ritorna la coreografia di Claudia Castellucci: è l’impulso profondo da cui si sprigiona il gestus, quel primigenio accordo che porta il singolo a muoversi in euritmia con l’altro. Lo spazio si forma secondo le libere (almeno all’apparenza) traiettorie dei danzatori che contengono in nuce un’idea di essenza e di essere, derivata dal principio parmenideo: ogni mutamento è tale solo in superficie, l’Essere è ingenerato ed eterno. Ecco allora che i danzatori formano movimenti coreografici simili a frattali, in un moto senza fine. Ancora si torna all’origine, al seme del ritmo, del gesto, dell’uomo.

Il colore
Neri sono i costumi, i cuscini, i palchi, la musica. Nero è il profondo della terra: senza l’oscurità non potrebbe nascere alcun seme. Ma senza la luce del sole nessun frutto esisterebbe sulla terra e il cielo non sarebbe blu. È al ritorno del Gran Maestro in scena, quando richiama i suoi discepoli all’ordine, che appaiono i colori: il giallo della luce calda del sole, il blu di acqua e cielo, il marrone delle zolle, sono contenuti da forme geometriche disegnate su una bandiera di seta simile a un aquilone o a un feretro. Presentata al pubblico con movimenti reiterati e rispettosi, quasi fosse uno stendardo, quella bandiera diviene l’immagine simbolo che suggella la fine di questo rito in onore della parte più profonda dell’essere umano.

Se la danza è lo strumento principe per comunicare con lo spirito, con il divino, quella agita in Verso la specie parla al profondo di ogni danzatore e spettatore al contempo: rappresenta l’essenza animale, terrigna, che spesso dimentichiamo, ma che si manifesta nella nascita o nel bloccarsi del più piccolo gesto, nel vuoto di uno sguardo, nella vibrazione di un suono.

Camilla Fava

Verso la specie
Direzione Claudia Castellucci
Insegnante coreografo Alessandro Bedosti
Musica Stefano Bartolini
Con gli scolari di Mora e i partecipanti al seminario di danza “Esercitazioni ritmiche a Forlì”
Organizzazione Stefano Lora, Elena de Pascale
Produzione Socìetas Raffaello Sanzio

Visto a Exatr di Forlì nell’ambito di Ipercorpo Festival_il 24 Maggio 2018