A cura di Martina Treu. // Firenze, Le Lettere – collana “Fuoriformato” 29, 2011, pp. 632 ill. ISBN 9788860874146

Quale collana se non “Fuoriformato” de Le Lettere, diretta da Andrea Cortellessa, avrebbe potuto raccogliere la prima edizione critica dei testi teatrali di un artista eclettico e irriducibile a qualsiasi etichetta quale Emilio Isgrò, capace di compenetrare in una cosa sola arte visiva, poesia, giornalismo, drammaturgia, critica d’arte e teatrale? Curatrice di questa novità editoriale è Martina Treu, critica teatrale, docente e ricercatrice di Lingua e Letteratura Greca all’università Iulm di Milano, specializzata negli allestimenti moderni del dramma antico e non solo ex cathedra, ma anche con collaborazioni sul campo. Così, questa edizione dei testi teatrali di Isgrò è stata concepita anche in vista di una sua funzionalità rispetto alla messinscena e al palco. Il denso volume, infatti, vanta un apparato critico molto attento al confronto fra originali e riscritture, e dedica una particolare cura agli aspetti spettacolari e performativi, ponendosi come illuminante lettura non solo per il lettore colto, ma per chiunque pratichi il teatro, dall’attore, al regista, allo spettatore.

Alla sezione Drammaturgie teatrali, che racchiude le dieci opere finora realizzate – fra cui qualche inedito – segue una selezione di ventuno scritti teorico-critici dedicati al teatro, le Drammaturgie parallele. Riflessioni teoriche e partiture per la scena sono così strettamente saldate, per permettere una coerente visione d’insieme, dall’alto, consona alla natura stessa dell’attività drammaturgica di Isgrò, complemento necessario di un’arte ‘totale’, che travalica i rigidi confini disciplinari.

La necessità di una raccolta onnicomprensiva e attenta al contesto di creazione, finora poco avvertita dalla critica accademica, è emersa piuttosto in un ambiente culturale più vicino al teatro reale, avido di modelli forti e propositivi: come ben lo definisce la curatrice, Isgrò è diventato un ‘classico suo malgrado’, per l’ampiezza e la consapevolezza teorica del suo progetto, per aver svincolato il teatro siciliano da un ambito ristretto e averlo spinto verso l’avanguardia e la ricerca, per l’efficacia dell’impegno politico delle rappresentazioni, per il fruttuoso rapporto con i modelli antichi. Non solo. Con la sua Gibella del martirio, concepita in seguito al terremoto che nel gennaio del 1968 distrusse la valle del Belice, nell’entroterra siciliano, Isgrò ha partecipato ad un’operazione culturale di straordinario valore, la cui potenza fa ancor oggi da monito ad una classe intellettuale per lo più tendente all’assopimento e all’autoreferenzialità: la ricostruzione del paese, o meglio la sua rifondazione, non è stata limitata agli edifici, ma si è compiuta attraverso un progetto mirato soprattutto alle persone, grazie a un massiccio investimento culturale supportato da intellettuali e artisti italiani e internazionali.

“Per non subirla completamente, insomma, la tragedia andava di stanziata e straniata”: così Isgrò, che in quell’occasione ha maturato la sua vocazione di drammaturgo e regista, ha scritto un testo ad hoc, dal forte valore terapeutico per tutti i cittadini di Gibellina che, prendendovi parte come coro, musicisti o maestranze, o aiutando negli allestimenti, lo hanno fatto vibrare di vita. Da quel momento la città è diventata fertile terreno di lavoro per il drammaturgo, che in essa ha colto l’occasione di fare un teatro di continuità fra la tradizione classica e la moderna attenzione al territorio, all’attualità, alla lingua e alla comunità di cui l’atto drammaturgico si deve fare interprete. È nata così l’Orestea di Gibellina, una riscrittura dell’omonima trilogia di Eschilo e, come l’originale, articolata in tre episodi (Agamènnuni, I Cuèfuri, Villa Eumènidi) messi in scena ancora una volta a Gibellina all’inizio degli anni Ottanta. Peculiare di quest’opera, che egli ritiene il “naturale compimento – forse il più alto – delle mie esperienze di poeta visivo”, è proprio l’appassionata ricerca sul piano della parola, sintetizzata nella prefazione autoriale Linguaggi federati. La scelta stilistica di scrivere teatro in versi rappresenta lo strumento con cui questo collage di linguaggi multiformi viene governato e “federato”, dispiegando così una potenza teatrale apparentemente perduta. Una prospettiva analoga è alla base delle cancellature che hanno reso Isgrò noto a livello internazionale: è solo nella sua negazione, e nel conseguente processo di ricostruzione, che la parola riconquista la sua complessità e il suo potere immaginifico. E di questo si occupa la postfazione a cura di Dario Tomasello, emblematicamente intitolata Parole come cicatrici senza ferita, dove la poetica di Isgrò è descritta come processo che evolve dalle cancellature alle riscritture. Per valorizzare questo aspetto, che costituisce forse la più idonea chiave di lettura di tutta l’opera di Isgrò, fortemente incentrata sull’esplorazione del rapporto fra immagine e parola, è stata riservata una particolare attenzione all’analisi del linguaggio, così da mettere in risalto quanto il ‘teatro verbale’ sia complementare alla ‘poesia visiva’ di cui l’autore si è fatto interprete. Una Nota ai testi, che segue il corposo saggio introduttivo – entrambi a cura di Martina Treu – fornisce i dati essenziali per inquadrare le opere nel relativo ambito di rappresentazione e rispetto ai modelli di riferimento, specialmente laddove sia stata compiuta l’operazione di rivitalizzazione dell’eredità antica, grazie al confronto analitico tra originali e riscritture. Un ricco apparato iconografico completa il lavoro di contestualizzazione.

I rigidi criteri di edizione a cui sono stati sottoposti i testi, corredati da traduzione e commenti critici, sono spiegati da Laura Cammarosano, che in corso di revisione ha definito delle vere e proprie linee guida, a cavallo fra l’esigenza di normalizzare e quella di preservare le scelte linguistiche e stilistiche di un autore difficilmente codificabile.

Gioia Zenoni