di e con Saverio La Ruina
visto al CRT di Milano _ 31 gennaio – 5 febbraio 2012

“Italianesi”.
Il titolo dello spettacolo di Saverio La Ruina non sembra altro che una formula sgrammaticata, un neologismo a stento ammissibile in qualunque dizionario, un incidente linguistico di due parole, “italiani”e“albanesi”, i cui pezzi, malamente incastrati tra loro come lamiere di auto accartocciate, creano un imprecisabile groviglio semantico.

La lingua, insomma, è il primo riflesso di un’identità incerta, quella degli “taliani” detenuti nei campi di prigionia creati in Albania all’indomani della seconda guerra mondiale.
I resti “dell’incidente mondiale” sono uomini e donne, soldati e figli di soldati che sono rimasti intrappolati al di là della cortina di ferro, sotto il regime di Hoxha, fino al 1990, alla caduta del sistema comunista.
Considerati stranieri, spie e capitalisti nella penisola Balcanica, non avranno pace nemmeno in Italia dove l’etichetta di “diverso” troverà la sua più evidente manifestazione nei dati anagrafici.
Una doppia identità duplicemente negata che si traduce in una sofferenza profonda, radicata, uno stato di frustrazione perpetuo e irrisolvibile.

La Ruina è un narratore eccezionale: la sua capacità mimetica offre allo spettatore la testimonianza partecipata di un personaggio autentico, sfaccettato, i cui tic linguistici, le peculiarità fisionomiche ed espressive, hanno basi così concrete che sembra di trovarsi di fronte a un vecchio parente che ricorda la propria esperienza senza alcun bisogno di esagerare.
Come un vecchio parente La Ruina racconta con espressività, ma senza affettazione: la gestualità si limita alla parte superiore del corpo, alla mimica facciale, alle mani irrequiete; il resto, a partire dalla zoppia, dovuta alle torture nel campo, fino alla scenografia costituita da un’unica sedia, non sono altro che funzioni del personaggio.

Tonino, il sarto protagonista del lungo monologo, è un uomo qualunque, un uomo umile: ama una ragazza dal volto “gentile” non “bello”, quando finalmente giunge in Italia dall’Albania –Shqipëria letteralmente: terra delle Aquile-, si sente libero come un piccione!
Quel che racconta però, è chiaro fin dalla presentazione-incipit, non è scontato. Così anche una disquisizione di sartoria può assumere contorni metaforici: se la piega è sbagliata, l’orlo è troppo basso. Ma la colpa non è dell’orlo, la colpa sta in alto, è il cavallo che comanda.

Tuttavia, anche nell’ambiguità della metafora, sono la genuinità e la modestia il foglio di via che consente all’ex-prigioniero di attraversare indenne i clichet (l’uomo che evade dalla propria condizione di carcerato con la libertà immaginativa), il patetismo del linguaggio comune e, a dirla tutta, anche una drammaturgia non sempre impeccabile, per consegnare intatta al pubblico l’emotività e la complessità della sua testimonianza.

Corrado Rovida