Raccontiamo con una staffetta di firme, in collaborazione con Teatroecritica.net, le 24 ore di spettacolo andate in scena ininterrottamente al Teatro Argentina di Roma dalle 19 del 17 ottobre 2015
ORE 19. 00 – di Andrea Pocosgnich – Teatro e Critica
Il piazzale davanti al Teatro Argentina pieno. Tante facce conosciute, ma anche tanti venuti da lontano, qualcuno pure dall’estero. La biglietteria è strapiena, in più punti è stato affisso l’annuncio di sold-out. I biglietti sono terminati da agosto. Ci si può mettere in lista di attesa e presentarsi nei Dream Time, dei momenti di pausa in cui gli attori di Jan Fabre dormiranno sul palco abbozzolati in bianchi sacchi a pelo. Qualcuno ci prova lo stesso, mettendosi in lista d’attesa o addirittura presidiando con fogli da agitare in aria sui quali appare “compriamo biglietti”. Scene insomma da grande concerto rock più che da teatro.
Quando aprono le porte si forma subito un ingorgo della durata di qualche minuto, mi dirigo al banco per il ritiro degli ingressi stampa. Secondo Ordine, palchetto 15, questa la base della nostra redazione, a sinistra Anna Bandettini de la Repubblica e a destra la squadra di Enrico Ghezzi con le telecamere per lo streaming (egh.guru).
In scena un fondale bianco sul quale verranno proiettate gigantografie dei primi piani di alcuni personaggi, dal soffitto scendono lampadine chiuse in gabbie sferiche, sul palco sei tavoli coperti da lenzuola bianche. Semplici lenzuola e tessuti bianchi anche per i duttili costumi dei 27 performer (tra attori, danzatori e musicisti). Si comincia (e si finirà) con Dioniso, vero protagonista di quest’opera di 24 ore. Dopo un prologo, in cui due messaggeri portano notizie funeste da urlare tra le natiche di coloro che le ripeteranno, una luce si posiziona sul basso ventre di uno dei performer: è immobile mentre centinaia di persone guardano un unico punto, il suo sesso protagonista di una lenta ma costante erezione.
ORE 20.00 – di Francesca Serrazanetti
Come cambierà il pubblico nel corso di queste 24 ore? A meno di un’ora dall’inizio dello spettacolo l’attenzione si percepisce densa nell’aria. Davanti allo scandalo-Fabre il pubblico in sala sembra imperturbabile, anche se si sente un “che schifo” pronunciato da una signora seduta in terza fila. Chissà se sia capitata qua per caso, chissà se sarà tra quei pochi che cederanno il braccialetto per la gioia dei molti in lista di attesa. La prima scena corale è governata dalla folle invasione di Dioniso che si manifesta in un twerking danzato senza freni e nella prima invasione di carne macellata, cui le narici del pubblico si dovranno abituare. Lanciata e raccolta ripetutamente, è la prima immagine della strage. Tra non molto quelle viscere rosse saranno il piccolo corpo di Astianatte ricomposto da Ecuba tra i lamenti. I venti minuti di salto della corda (in realtà catene che non di rado finiscono sulle caviglie dei performer), incoraggiati da cori alla Full Metal Jacket, sono la prima grande prova di resistenza per gli attori: unica salvezza la concentrazione, la sincronia, la partecipazione collettiva a un rito che sfida il corpo e la tenitura dei muscoli. «What is the pain that hurts the most?». Il dolore viene spazzato via dal refrigerante sollievo dei ghiaccioli, immediato pretesto per risvegliare l’erotismo. In platea iniziano i primi spostamenti, ci si alza e ci si risiede, ancora timidamente per la paura di interrompere. I pezzi di carne macellata sono diventati cuori lavati con cura dentro a vasi pieni d’acqua. Il sangue diventa il vino di Dioniso.
ORE 23.00 – di Simone Nebbia – Teatro e Critica
«Ci hanno preso i posti – Come? – Eh siamo usciti e ci si sono seduti sopra… – Mo’ li caccio!»
Erano due signori al rientro da una delle pause, erano due signori che hanno scambiato l’esperienza cui erano chiamati: andare verso, dentro, un tempo dilatato in cui nulla è certo, nemmeno il proprio posto, di contro al loro concetto di presenza teatrale, vocata alla staticità percettiva. L’ambivalenza, la specularità tra scena e platea è stato il reiterato stimolo per il pubblico del Teatro Argentina; per meglio dire, la concomitanza corporale tra l’arte e la sua fruizione, è stato il richiamo di Jan Fabre alla massa che lo ha seguito in questa follia lunga un giorno. Ma questa modalità di coinvolgimento poggia inevitabilmente su un assunto ben preciso: guardami, io ti stupirò. È così che di ogni scena non si sappia dire se corrisponda a un’esigenza intima di una o l’altra tragedia oppure sia derivazione di un desiderio di attrazione, esteriorizzato per una scelta a priori di colpire visivamente là dov’è debole la percezione. La sensazione non sfugge allo stesso regista, che infatti cerca di sfondare i confini della forma perché risalti e, anzi, debordi il contenuto. Fuori dal teatro l’odore della carne, fuori di noi l’odore rattrappito di spettatori sfiniti. Ma là dov’è il desiderio di veicolare una sensibilità, dietro l’angolo è forse il rischio che a fare un teatro a tutti i costi spettacolare si finisca per compiere un errore determinante: dare spettacolo del teatro.
ORE 02.00 – di Viviana Raciti – Teatro e Critica
Ne avremo pensate migliaia di possibili situazioni per dirci che questo non era un evento così fuori dal comune. Fuori dal teatro. Silenzio tra le strade di una Roma dai sampietrini perlati di pioggia, penso agli operai, ai panettieri, ai medici di turno. Ma io, che fuori dal teatro mi trovo alle 2,45 del mattino, straordinaria autista notturna per un solo fruitore, non sono una di loro. «Mi rivolgo al sonno come a un amico»: mi accoglie così l’unico performer sveglio quando quasi tutti gli altri dormono ancora, spettatori sulle brandine – abbracciati quasi fossero in un campo di battaglia – e performer sul palco avvolti in piumini bianchi, crisalidi in attesa di esplodere in nuova energia. Guardo i lenzuoli che li avvolgono e assale in me il desiderio di emulazione, rituale di noi bambini drappeggiati di bianco nel gioco degli antichi dèi. Fa quest’effetto osservare una azione protratta così a lungo nel tempo, supera lo stupore per la resistenza, sopraggiunge e scalza la noia, arriva di nuovo quella meraviglia che permette di essere lì a osservare attentamente e, contemporaneamente, a recuperare un tempo che credevi dedicato ad altro. Così penso mentre il jumping laughing chorus riscalda corpi e voci, respirando e muovendosi appena, finché non alza il volume del proprio agire diventando uno stormo di salti, risate, latrati. Sono dèi irridenti, diventeranno intimoriti e goffi mortali, contestatori forti del loro limite: la caducità. «Our blood can be spilled but our seed will survive». Anche il sonno che avremo perso farà spazio a un germe nuovo. Torno a casa, perché devo ritornare all’ordinarietà, ma le rubo un altro po’ di tempo, almeno quello per dare un cerchio alle mie tre ore sul Monte Olimpo. Passa il 64 con la prima corsa del mattino.
ORE 05.00 – di Maddalena Giovannelli
Le fatiche di Tantalo, secondo Jan Fabre, hanno a che fare con la vagina.
Le gambe delle attrici si aprono, mostrano, chiamano. Ippolito risponde, accorre, si avvicina: ma è inutile, l’obiettivo si sposta sempre un po’ più in là. «Why women!?», chiede disperatamente la vittima del supplizio, mentre tre donne gli si scagliano addosso, depositando sul corpo stanco del collega tutto il loro peso. Quell’uomo ossessionato dal femminile è il mitico Ippolito figlio di Teseo, devoto alla casta Artemide e refrattario ai rapporti con l’altro sesso. Ma difficile non scorgervi dietro lo stesso Fabre che – forse vittima a sua volta – plasma l’intera propria poetica di una sessualità invasiva, immancabile e conturbante. E mentre la notte procede, qualche spettatore esce e qualcun altro si accascia a terra, mentre la fruizione si fa sempre più rarefatta e alterata, il teatro risuona di sospiri e gemiti, i corpi dei performer si allacciano l’uno all’altro, il vapore copre il palco con la complicità dell’onnipresente Dioniso. Persino gli Inferi, nell’universo di Fabre, sono cupamente dionisiaci, uno scenario alla Eyes Wide Shut: lì approderà Alcesti, disposta a morire per amore, al termine del proprio viaggio. Squassata nel corpo da una forza oscura, la donna si prepara al passaggio cruciale con un bagno purificatore. Lavarsi via il quotidiano, lasciarsi dietro ogni cosa sono i presupposti per poter approdare a un’altra dimensione: proprio ciò che viene richiesto allo stremato spettatore di Mount Olympus alla ricerca di una nuova catarsi.
ORE 08.00 – di Lucia Medri – Teatro e Critica
Mi dicono che potrei arrivare dopo il dream time «tanto c’è la lunga pausa di un’ora e mezza in cui i performer dormono sul palco» e invece no. Voglio giungere durante la tregua, lo spegnimento di ogni tensione, quando si acquieteranno i clamori osceni della notte appresi grazie alla moltitudine di commenti postati sui social network, a sottolineare la natura di questo evento partecipato e quindi necessariamente condiviso. Durante nessuno spettacolo si ha la possibilità infatti di scattare foto né di riprendere video. Ma questo non è uno spettacolo. Così dopo aver preso il mio pass, scosto la tenda rossa ed entro. Non vedo nulla, tutto buio e davanti a me ci sono le trentuno lampadine che sul palcoscenico illuminano i performer dormienti e, chissà, sognanti. L’aria è rarefatta come quella di un dormitorio, brancolo e mi siedo. Immersa in un torpore che non mi appartiene ascolto e rispetto l’altrui riposo. Si russa. Poi vago per il teatro profumato di caffè e vedo sulle brandine gli spettatori addormentati, anche loro spossati dalla fatica che fino a quel momento si è consumata. Io sono fuori da questo tempo e contro il quale contrasta la mia veglia mattutina. Intorno alle dieci, un formicolare di persone, tante, giunge in platea e io sono in ansia per la mia iniziazione, fremo per partecipare al rito. Ecco, i performer si risvegliano, abbandonano il loro stato larvale e anticipando il nono capitolo dedicato ad Agamennone danzano, furiosi e deliranti, la taranta del sacco a pelo.
ORE 13.00-19.00 di Francesca Serrazanetti
La ripetizione ciclica – di coreografie, di movimenti, di testi – è il codice per resistere alla stanchezza e per entrare nel rito. La fatica chiama fatica ed energia, e il pubblico ne diventa parte. La lunga durata – nel manège danzato da Ifigenia e Clitemnestra intorno ad Agamennone ma anche nel delirio di Cassandra – ha concesso di prendersi il tempo per partecipare a una sofferenza che diventa tangibile ed empatica. A poche ore dalla fine tutti hanno preso confidenza con il vocabolario di gesti, frammenti e parole che in modo intermittente attraversano questa mastodontica performance in modo reiterato. Le tragedie personali di Clitemnestra, Medea, Alcesti, Cassandra e Giocasta possono allora intrecciarsi in un’unica immagine corale. Per ognuna di loro, cosa rimane? «Carne cruda, piacere incommensurabile, indicibile dolore». Solo alla fine il mosaico sarà completo, in un tripudio di corse, colori e parole.«Sveglia!»«Non chiudere gli occhi!», urla Aiace a un coro che non riconosce più il limite tra veglia e sonno. Che cosa è reale e che cosa frutto dell’inconscio? L’attesa della catarsi finale è palpabile, e irrefrenabile per chiunque sia avvolto dall’aria ormai densissima del teatro. Che un nuovo ciclo abbia inizio. Che ognuno si goda la sua tragedia.