Quattro animali cercano di divincolarsi mentre entrano in scena ingabbiati, chi da una rete arancione da cantiere, chi da una mascherina respiratoria, chi da più avvolgimenti di tubi in plastica. Lavori in corso: impossibile muoversi. Attrezzi del tipico cantiere stradale costringono i gesti,  imprigionano l’uomo, come a dire che la prima condizione sociale è proprio quella oppressiva. Non può che iniziar ben presto la protesta: i danzatori muovono le braccia in aria ribellandosi al potere e la musica inizia a guidarli verso la liberazione. Bastano pochi minuti e i corpi sussultano e aumentano la frequenza del movimento, scontrandosi e allontanandosi tra di loro, in una continua interazione sperimentale.

Il gioco è sempre lì: sottostare a un potere (che può essere religioso, politico, artistico o lavorativo) o ritornare a una condizione primitiva, legata all’ambiente vegetale, animale e infantile. Sull’onda dei lavori passati, come Agon-teens e ILINX – don’t stop the dance, Simona Bertozzi con Joie de Vivre ricerca nuovi modi per scardinare forme e costrutti precostituiti e generare un movimento nuovo. Motore della performance è il canto ancestrale di cui si fanno portatori due “capi cantiere” che spostano gli oggetti del paesaggio inquinato che è il palco e costruiscono tappeti sonori amplificando la loro voce proprio grazie agli strumenti da lavoro che si trovano intorno. Anche una società tipicamente pirandelliana, che formalizza con ruoli sociali e istituzioni, è riqualificabile dal suo interno? La domanda che si pone Bertozzi sta in questa indagine: cos’è gioia di vivere? I sorrisi sforzati che si obbligano a fare i danzatori? Le risate che ogni tanto scappano ai performer? Nessuno di questi stereotipi posticci! L’unica possibilità di espressione e di gioia sta nella libertà: è allora naturale che nel pubblico si senta serpeggiare un «Non può essere finito così!» mentre uno dei performer rimane incastrato sotto un groviglio di tubi. E infatti mentre calano le luci in sala, lui si alza in piedi: ancora una volta, libero.

Giulia Villa


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview