Esiste ricerca drammaturgica nel teatro di figura? Se è vero che spesso di uno spettacolo con marionette (usiamo qui il termine alla francese, ovvero a indicare per estensione tutti i tipi di figure e di tecniche di animazione) colpisce l’estetica dell’oggetto, la dimestichezza del marionettista nella manipolazione, insomma l’aspetto visuale, mentre lo sviluppo drammaturgico lascia un senso di insoddisfazione, sono sempre più numerosi – soprattutto oltralpe – i marionettisti che cercano la collaborazione di un dramaturg, figura sempre più imprescindibile nelle creazioni contemporanee di questo tipo di teatro. I fondamentali cambiamenti avvenuti nella seconda metà del XX secolo hanno avvicinato sempre di più il teatro di figura al teatro tout-court: l’allontanamento dalla dimensione familiare a favore di un processo di istituzionalizzazione e soprattutto le sperimentazioni che dagli anni ’70 hanno visto sempre più marionettisti uscire dalla baracca e abitare l’intero spazio scenico hanno determinato la somiglianza che intercorre, oggi, tra teatro di figura e teatro d’attore, per modi di produzione, spazi teatrali utilizzati, e, di conseguenza, interrogazioni estetiche e drammaturgiche. Non sorprende, dunque, che le processualità sviluppate da alcuni artisti del teatro di figura contemporaneo intessano legami trasversali con altri professionisti dello spettacolo e concorrano a sviluppare una “mente collettiva del teatro”, il cui sforzo è votato a far accadere in scena visioni drammaturgicamente sostenute. Pur se in modo sotterraneo e talvolta inconsapevole, il teatro di figura in Italia presenta diverse esperienze di drammaturgia, da Gyula Molnàr nel suo accompagnamento registico ad altri burattinai quali Gigio Brunello e Marco Lucci, a Marco Rogante e il suo sguardo esterno nella collaborazione con Marta Cuscunà. In Francia, tale abitudine si è fatta talmente diffusa che alcune dramaturg si sono specializzate nel lavoro con compagnie di marionettisti: Julie Postel, Julie Sermon, Pauline Thimonnier collaborano assiduamente con esse oltre che con compagnie di prosa. È in questo quadro che abbiamo voluto rivolgere alcune domande a Julie Postel, PhD, dramaturg e regista approdata alla pratica drammaturgica proprio attraverso la marionetta e i suoi anni di ricerca in questo campo, svolti in parte a Charleville-Mézières, sede di uno dei più grandi festival europei delle arti della marionetta e della più importante scuola per marionettisti (ESNAM). 

Sei dottoressa in Arti dello spettacolo, dramaturg e co-fondatrice del collettivo Les Surpeuplées. La tua tesi di dottorato, Présences de la marionnette contemporaine: figure, figuration, défiguration, si conclude con una frase premonitrice sui tuoi sviluppi futuri: «Questa ricerca si è aperta su un’esperienza di spettatrice, si conclude su un desiderio di ricerca artistica. Il campo della marionetta ci ha aperto a un’altra percezione del drammatico, che promette dialoghi fruttuosi con gli artisti e un rinnovamento dell’immaginario legato alle arti marionettistiche». Come sei arrivata a esercitare la “professione” di dramaturg? E che ruolo ha avuto la marionetta in tutto questo?

Sono arrivata alla drammaturgia non al termine del mio dottorato ma durante esso, grazie ad alcuni incontri che ho fatto mentre lavoravo all’Institut International de la Marionnette a Charleville-Mézières. Qui ho avuto l’occasione di presentare le mie ricerche agli studenti marionettisti e ad artisti in residenza, e a seguito di tali scambi sono stata invitata a partecipare ad alcuni processi di creazione, talvolta soltanto in posizione di osservatrice, altre volte affinché scrivessi dei testi a partire dagli spettacoli che seguivo. Non si trattava ancora esattamente di processi di drammaturgia, non darei questo nome a quel tipo di pratica, ma gradualmente gli artisti mi hanno proposto di lavorare insieme a loro ponendomi effettivamente nella posizione di dramaturg. La marionetta ha quindi innescato lo sviluppo di legami professionali, nonostante la mia tesi di dottorato non fosse precisamente incentrata sulla marionetta in quanto oggetto manipolato: il mio soggetto di ricerca era piuttosto l’indagine dei modi di presenza sul palco. La marionetta offriva una cassa di risonanza alla domanda centrale che mi ponevo: cosa determina una presenza sul palcoscenico? Di conseguenza mi sono interessata a creazioni dove non soltanto attori e attrici non incarnano più necessariamente alcuna presenza, ma in cui per donare corpo a una presenza non sono usati oggetti antropomorfi: cercavo spettacoli che giocavano con effetti di suono, di luce, di materie fluide per mettere in scena delle presenze. Il mio lavoro si posizionava dunque ai margini delle arti della marionetta, ma visto che gli artisti che nel tempo ho incontrato utilizzavano (anche solo parzialmente) questo mezzo, mi sono trovata a fare da dramaturg anche per spettacoli che si approcciavano alla marionetta in maniera un po’ più “classica”. Gli artisti che si sono interessati al mio modo di fare drammaturgia erano sia alla ricerca di forme “marionettistiche” che si scostavano dal principio di animazione di un oggetto, sia orientati a un uso della figura più classicamente inteso. Non sono arrivata alla drammaturgia dal prisma della professionalizzazione. Non ho cercato di diventare dramaturg, né ho svolto una formazione in tal senso. Le prime volte che mi hanno proposto di svolgere questo ruolo l’ho fatto senza avere conoscenze pregresse né tecniche di lavoro. Quel che avevo erano soprattutto delle domande, domande che mi ponevo guardando i lavori a cui ero invitata. Credo che gli artisti che hanno voluto lavorare con me all’inizio desiderassero che tali domande fossero poste durante il processo di creazione. Nei primi progetti mi muovevo certamente nel campo della drammaturgia, ma questo era malleabile, e la natura dell’apporto che mi veniva richiesto variava molto da un progetto all’altro. Di fondo c’era sempre una riflessione drammaturgica sulla coerenza degli elementi, sulle scelte tecniche da compiere in funzione al progetto drammaturgico, ma la forma del lavoro variava moltissimo, e in effetti continua a farlo. È solo a posteriori, oggi, che riesco a individuare delle ricorrenze nel mio metodo di lavoro, e a proporre delle dinamiche formali più stabili. 

Dal modo brechtiano di “custodire il significato” allo “stato d’animo drammaturgico” evocato da Bernard Dort, che ne è oggi della pratica drammaturgica? In cosa pensi che risieda la sua specificità o, al contrario, in cosa si dirama la sua multipotenzialità, il suo essere un esercizio fluido e sempre mutevole del fare in scena?

Ti parlerò soprattutto della mia pratica drammaturgica, è difficile fare delle generalizzazioni. Rispetto ai due fari che citi, Brecht e Dort, mi identifico con i due poli che essi hanno sviluppato nel lavoro di drammaturgia, riconoscendo tuttavia una grossa differenza: cioè che la componente testuale ha un’incidenza molto differente nei progetti ai quali io generalmente prendo parte. Se da un lato negli spettacoli a cui ho lavorato c’è sempre stato un testo, esso era spesso in fase di creazione, non finito; oppure, il testo non occupava una posizione centrale rispetto ad altri elementi dello spettacolo (le figure utilizzate, il suono, la scenografia…).

Mi riconosco nella mansione di “protezione del senso”, soprattutto nel momento in cui mi faccio “depositaria” di un progetto drammaturgico. Questo farsi depositaria ovviamente non avviene da un momento all’altro, è il frutto di un processo: devo prendere parte alla nascita del progetto, aiutare a definirlo, mettere delle parole su qualcosa che inizialmente può essere nebuloso nella mente dell’artista. Ci mettiamo d’accordo sui termini con cui definire le intenzioni primarie. In seguito, cerco di diventare una sorta di bussola, ricordando quelle parole iniziali, quel senso primario, per verificare se ci si sta ancora riferendo a essi. Cerco di indicare sulla mappa dove si trova la nave, ma non spetta a me giudicare se sia bene o male allontanarsi dal progetto drammaturgico iniziale. Sono lì per segnalare quando il lavoro corrisponde a quel senso primo o quando se ne è allontanato. Credo soprattutto di essere uno specchio per il regista o la regista. Cerco di verbalizzare ciò che fanno, in modo da restituirlo sia a loro che a tutte le altre figure che lavorano allo spettacolo (gli interpreti, ad esempio, fanno spesso riferimento a me per capire in che direzione stiamo andando), cerco di tradurre le parole, di focalizzare il pensiero. Direi che il mio modo di svolgere il mestiere del dramaturg assomiglia a diversi mestieri insieme: a quello del giardiniere, nella misura in cui cerco di cogliere cosa muove il regista o la regista, di esserne non solo la depositaria ma di coltivare quel nucleo arricchendolo attraverso il riferimento ad altre opere, spettacoli, libri, spunti di diverso tipo; al mestiere di architetto, quando cerco di aiutare a strutturare il pensiero dietro uno spettacolo per renderlo comunicabile; a quello di “assaggiatrice”, quando alla fine di un processo di creazione vedo lo spettacolo in quanto spettatrice “esperta”, quando assaggio lo spettacolo e ripeto in seguito a voce quel che ho assaggiato, non per dare un giudizio sulla bontà del piatto, ma perché lo chef possa capire se corrisponde a quello che voleva cucinare. 

Un altro scarto, forse, che caratterizza la mia pratica da quella codificata da Brecht o Dort è nella grandissima componente umana, direi anche psicologica o energetica. Devo riuscire a essere in sinergia con il regista o la regista, arrivare a essere una piccola voce nella loro testa per aiutare a orientare i pensieri. Questo richiede molta capacità di adattamento, anche in termini pratici – alle date di residenza, al quadro di lavoro, al temperamento degli artisti. Ogni volta cerco una coesione con ciò che l’artista ha in mente e con i suoi bisogni, verso i quali cerco di andare incontro. Cambio forma a seconda della persona con cui sono chiamata a collaborare. Questo richiede di essere piuttosto flessibili caratterialmente, in ascolto, e allo stesso tempo permette di apprendere molte abilità e competenze, di sviluppare tecniche diverse in funzione di ogni progetto: a seconda delle volte ho imparato a scrivere delle sceneggiature, a redigere dei dossier pedagogici, a collaborare con gli operatori teatrali e i curatori…

Costruzione del paesaggio di intenti durante le residenze per la creazione “Birdy” di Frédéric Feliciano-Giret (Friiix Club)

Nel suo articolo del 1994 sulla drammaturgia pubblicato su Theaterschrift, Marianne Van Kerkhoven afferma che «il drammaturgo non è (o non è del tutto, o non è ancora) un artista». Eppure, tu indossi entrambi gli abiti, di creatrice e di dramaturg. Trovi che le due cose possano andare di pari passo? Come la tua pratica artistica (che svolgi in prima persona) nutre quella drammaturgica (che svolgi per altri artisti) e viceversa? 

Ritengo naturalmente che possano andare di pari passo, è quello che faccio. Ogni volta che comincio un nuovo progetto, comunque, ho ben chiaro quale sia il mio status. Non c’è alcuna confusione su questo, distinguo molto nettamente le mie mansioni quando lavoro in quanto dramaturg e quando invece sono interprete o regista. Da quando svolgo entrambe le pratiche, ci sono momenti in cui, in quanto regista, cerco di attivare alcune delle cose che faccio come dramaturg e, viceversa, quando sono dramaturg, la mia pratica è sicuramente arricchita dal fatto che a volte sono regista. C’è una questione di posizionamento diverso in seno alla squadra di lavoro, c’è una gerarchia: come dramaturg sono chiaramente a servizio della regia, non sono mai io a prendere le decisioni finali o a scegliere il campo del sensibile all’interno di cui si andrà a lavorare. Da quando sono regista riesco a vedere in modo più chiaro i limiti del mestiere, la sua impossibilità: se all’inizio nella mia pratica di dramaturg cercavo di analizzare fino in fondo, a livello di logos, le intenzioni del regista, mi rendo sempre più conto dell’indicibilità di alcune cose, ad esempio l’intuizione e la sensibilità che perderebbero in forza se venissero spiegate. È importante non dover analizzare tutto, e accogliere invece ogni intuizione come materia prima per la creazione. Oggi mi rendo conto di questa “domanda di impossibile” che ho avuto quando ho intrapreso la carriera come dramaturg, e cerco di essere meno rigida, di donare piuttosto degli impulsi per lo sviluppo della creazione artistica del regista, senza cercare di inquadrare il lavoro in caselle analizzabili. L’accettare la spontaneità dell’intuizione artistica mi è sicuramente venuto dall’esercizio in prima persona della regia. È bene specificare che ho sempre fatto regia in binomio, in collaborazione con la regista e performer Marta Pereira nel nostro collettivo Les Surpeuplées, e questo ci ha permesso di avere sempre anche uno sguardo drammaturgico che condividevamo l’una con l’altra, in alternanza. Essere in due mi ha così permesso di esercitare la pratica drammaturgica anche nei miei lavori di regia, ed è grazie a questa mutualità che mi sono potuta rendere conto di quanto avvenga sulla scena durante le prove senza che lo si abbia formulato verbalmente in precedenza.

In cosa risiede la particolarità di essere dramaturg nel campo delle arti della marionetta? Quali specificità l’oggetto scenico aggiunge al lavoro drammaturgico? Come articoli il tuo sguardo? Alcune volte ti sei concentrata su questioni relative alla scrittura, altre volte ti sei occupata di un aspetto inusualmente molto tecnico, ovvero di drammaturgia dei materiali: in cosa consiste?

Il fatto di fare drammaturgia per scritture marionettistiche aggiunge una dimensione orchestrale, implica la necessità di conoscere il linguaggio di un materiale che è diverso dal testo, dal corpo, dalla scenografia, ovvero quello dell’oggetto. Il linguaggio della marionetta esige una visione ancora più ampia dell’insieme dei segni che si andranno a orchestrare sul palco. Il fatto di avere conoscenze nel campo delle arti della marionetta mi permette di fornire sostegno e di rendere più densi i progetti artistici su cui lavoro, arricchendone ad esempio gli spunti provenienti dalla storia dell’arte, suggerendo delle eco con altri spettacoli, proponendo l’uso di una tecnica di manipolazione precisa… Dicevo prima che sul palco ci sono cose che sfuggono alla verbalizzazione: con l’oggetto marionetta si aggiunge uno strato ulteriore di indicibilità, di imprevedibilità. È un vincolo irriducibile: quando arrivi sul palcoscenico, la parte relativa alla figura non è già scritta, non è prevedibile in quanto tale. Questo strato di impreparazione può rivelarsi molto ricco, obbliga a sviluppare un progetto drammaturgico che tiene conto di questa forma di imprevedibilità della materia. Chiaramente, più si conoscono le tecniche di manipolazione, più si può arrivare ad perfezionare progettualmente l’intervento della figura, si riesce a indovinare quello che essa può fare. Ma ci sono volte in cui questa impredicibilità è molto alta. Ad esempio, il marionettista Frédéric Feliciano-Giret mi ha chiesto di lavorare durante il tempo che precedeva l’arrivo degli interpreti e delle figure: abbiamo svolto alcune settimane di residenza di scrittura in cui io non ho incontrato né gli attori e le attrici che avrebbero recitato, né ho visto concretamente la scenografia e gli oggetti che avrebbero manovrato – anche se me li aveva descritti. Era un lavoro di scrittura per impostare il copione in modo che fosse abbastanza solido da restare il punto di riferimento nel corso delle prove, ma altrettanto elastico da permettere agli oggetti e alle figure di trovarvi il loro posto. Era un copione che doveva prevedere l’apporto delle figure quando queste fossero arrivate, che reggesse nonostante le loro modificazioni, perché le cose cambiano quando si comincia a lavorare anche con gli oggetti. Serve una conoscenza di un tipo di scrittura che potrà essere performata dalla marionetta, dall’oggetto. Proprio perché ho lavorato spesso con artisti marionettisti, conosco quel che può fare la marionetta a teatro, il tipo di libertà che bisogna lasciarle, il tipo di cornice che le si può dare inizialmente.

Nel progetto Vassilissa, sorcière de mère en fille di Fleur Lemercier (Cie La Flamme), ho effettivamente svolto maggiormente una drammaturgia dei materiali: qui la performer manipola le luci con un guanto elettronico che le permette, attraverso dei movimenti della mano, di orchestrare l’illuminazione sul palco, creando una scenografia animata a distanza. Le luci cambiano di intensità, colore, numero, e si integrano con le ombre che vengono a sovrapporsi. In questo caso non abbiamo lavorato con oggetti propriamente detti, ma con materiali fluidi, evanescenti, e abbiamo cercato di esplorare il loro linguaggio: che presenze possiamo creare a partire da questi materiali? Similmente, per Et mon corps inondé di Marta Pereira ho lavorato molto sulla materia dell’acqua, sulla tensione tra la forma e l’informe che essa poteva portare sul palco. Questo tipo di lavoro è stato ancora più evidente in Poussière, della compagnia Infra (Sophie Mayeux), che ha studiato la simbologia della polvere, della cenere, della materia che avrebbe messo in movimento partendo dalle teorie della catastrofe di Georges Didi-Huberman. Questi materiali implicano una modalità di scrittura ben diversa da quella degli oggetti e delle marionette, più eterea e musicale. 

Marta Pereira, “Et mon corps inondé”, creazione 2017-2018

Come si concretizzano le esperienze che hai accumulato nella tua pratica di dramaturg? Quali materiali di lavoro e processi drammaturgici hai sviluppato? 

Una delle mansioni che svolgo in quasi ogni spettacolo a cui partecipo è quella di progettare l’universo mentale in cui tutti i membri dell’équipe artistica saranno immersi durante la creazione. Esso passa attraverso immagini, riferimenti ad altri spettacoli, musiche, e amplissime bibliografie: uno dei miei compiti è precisamente quello di nutrire queste matrici drammaturgiche. Faccio appello a diversi mezzi (visivi e non) per creare un paesaggio condiviso di riferimenti, che probabilmente non appariranno mai nello spettacolo finale, ma che accompagnano tutto il processo. Spesso faccio una sorta di gioco, un questionario che amo porre all’inizio dei lavori per delimitare l’universo di pensiero del regista: “che cos’è questo spettacolo?”, “che storia vuoi raccontare?”… Chiedo di rispondere in una frase a domande di questo tipo. Talvolta la risposta non c’è fin da subito, può arrivare anche dopo alcuni mesi di lavoro, ma tali domande sono utili a iniziare il dialogo. Il lavoro per il prossimo spettacolo di Frédéric Feliciano-Giret a cui ho preso parte, Birdy, si ispira a un fatto di cronaca. All’inizio bisognava scegliere che cosa tenere della vicenda in base a ciò che si voleva raccontare e in seguito dare un ordine alla sceneggiatura. Per arrivare a questo abbiamo usato anche alcune tecniche di ipnosi: talvolta trovo utile chiedere al regista o alla regista di chiudere gli occhi e di raccontarmi cosa vede quando percorre a mente lo spettacolo che sta immaginando. È così che abbiamo scritto la prima time-line dello spettacolo, che poi abbiamo riordinato in modo più logico. Mi piace iniziare con una prima fase “ipnotica”, di spettacolo immaginato, in cui cerco di dare un nome alle immagini mentali, di visualizzarle, e di procedere poi con un lavoro più strutturato, di intelletto, di dialogo, indirizzato alla comprensibilità dello spettacolo per i futuri spettatori. 

Costruzione del paesaggio di intenti durante le residenze per la creazione “Birdy” di Frédéric Feliciano-Giret (Friiix Club)

Un altro esercizio che propongo spesso è quello del “ritorno ideale”: domando al regista o alla regista quali commenti spera di sentire da parte degli spettatori alla fine dello spettacolo. In molti dei lavori che accompagno c’è da parte dei marionettisti una particolare attenzione alla ricezione del pubblico, e il gioco del “ritorno ideale” aiuta a definire quali siano le reazioni, le emozioni, le impressioni che si vogliono far attraversare a chi guarda. Poi, riguardare quelle intenzioni a lavoro ultimato riserva spesso belle sorprese. Creo inoltre alcuni strumenti o materiali per guidare le improvvisazioni degli interpreti durante le prove. Cerco di porre questioni che sviluppino maieuticamente il senso da portare sul palco. Il mio lavoro consiste anche nel porre delle domande alla scena: quando un passaggio drammaturgico non è chiaro, cerco di porre dei vincoli al palcoscenico che permettono di esplorare diverse possibilità, di vedere come la materia o la recitazione degli attori risponde a determinate questioni, per creare risposte che vengono dal palco.

Poche, come abbiamo potuto vedere, sono ormai le differenze effettive tra i processi creativi del teatro di figura e quelli del teatro di prosa. Le pratiche drammaturgiche arricchiscono le arti della marionetta, ormai sempre più incrociate ad altri linguaggi scenici (danza, performance, installazione…), la quale a sua volta diviene un ricco campo d’azione per la sempre fluida e multipolare figura del dramaturg.

Francesca Di Fazio


in copertina: Julie Postel in residenza per la creazione Birdy di Frédéric Feliciano-Giret (Friiix Club)