direzione artistica e coreografia di Akram Khan
visto al Teatro degli Arcimboldi di Milano _ 16-17 gennaio 2015
Al di fuori degli appuntamenti di inizio stagione nel cartellone di Milanoltre, è difficile vedere a Milano coreografi di rilevanza internazionale. A ospitare qualche nome degno di nota per gli amanti della danza contemporanea è il Teatro degli Arcimboldi: nei prossimi mesi saliranno sul palco la Shen Wei Dance Arts e la Carolyn Carlson Company.
L’apertura del 2015 è toccata invece a Akram Khan, quarantunenne londinese originario del Bangladesh ritenuto a buon diritto uno dei più interessanti coreografi della scena mondiale. Al pubblico milanese è stato presentato Kaash, uno spettacolo del 2002 che torna alla vita con qualche modifica: alla prima formazione di cui faceva parte lo stesso Khan, oggi si sostuisce un corpo di cinque nuovi danzatori. La scena è stata pensata da Anish Kapoor, in una sinergia tra coreografia e arte visiva non certo inedita (basti pensare alla prolifica e irrepetibile collaborazione tra Merce Cunningham e Robert Rauschenberg, dal 1954 al 1965). I milanesi hanno imparato a conoscere e ad amare il poliedrico Kapoor – come Khan di origini indiane – anche per la bella installazione di lunga tenitura alla Fabbrica del Vapore (2011/2012). Con queste promettenti premesse, non è mancata qualche delusione: la scenografia di Kapoor si limita di fatto a una tela rettangolare con un vuoto al centro, posta come fondale del palco e valorizzata da un sapiente disegno di luci. Eppure, a ben guardare, si tratta di un intervento non spettacolare ma coerente: anche la danza di Akram Khan è essenziale, pulita, priva di ogni orpello. Il fondale viene acceso, di tanto in tanto, da luci colorate che gli conferiscono un effetto pittorico trasformandolo in qualcosa di non troppo diverso da una tela di Rothko. Al centro il poligono resta invariabilmente nero, quasi una finestra che si apre sul niente, una fessura metafisica pronta a inghiottire l’occhio dello spettatore come avviene nelle installazioni di James Turrell (i “Ganzfeld”) in cui la percezione di chi guarda è alterata dai giochi di luce. Lo spazio geometrico immaginato da Kapoor, semplice ma rigoroso, ricorda le scene raffinate e ineffabili di Bob Wilson.
L’incipit di Kaash è fulminante: i cinque performer nero vestiti entrano in scena e paiono letteralmente in-carnare le musiche scritte ad hoc dal compositore Nitin Sawhney. Le braccia disegnano spesse traiettorie nello spazio, saettando nell’aria come lame. La partitura coreografica, pensata in un dialogo profondo con quella musicale, è una rincorsa di accelerazioni ritmiche e di rallentamenti, di densità e di rarefazione. I cambi di direzione e di peso si susseguono a velocità dionisiache, poi il tempo pare fermarsi: ed ecco che lo sguardo si sposta dall’insieme al particolare, dal corpo in movimento al piccolo disegno delle dita di una mano. Ai dirompenti momenti corali si alternano parti a due, sempre di particolare potenza drammaturgica e simbolica. Una danzatrice, sola sul palco, si contorce e si dimena, in preda a forze non umane. Per far cessare la delirante scossa delle membra, cerca salvezza nella coreografia lenta e controllata di un altro; ed ecco che – poco a poco, nell’ascolto reciproco – il movimento riprende il ritmo del respiro.
Kaash è un’ora di danza purissima, che non concede nulla alla spettacolarità o alla ricerca dell’effetto: i contatti tra i danzatori si contano sulle dita di una mano, la coreografia non prevede prese, non c’è un solo buio a dare sollievo allo sguardo o ai perfomer. La raffinata miscela di tradizione kathak e di istanze contemporanee che ha reso celebre Khan si misura in intensità e precisione: lo spettatore, prima che ad assistere ad una performance, sembra chiamato a diventare parte di un rito.
Maddalena Giovannelli