I Carpazi come macchie sulla pelle, sull’identità, come segno che non si può lavare, come boschi e montagne che osservano gli uomini migrare, combattere, morire, ricostruire, come «luogo delle radici» a cui non si può non ritornare.
Karpatenflecken è il canto di Thomas Perle per la sua terra d’origine, il tentativo di usare insieme i poteri di sintesi e sublimazione del teatro: da un lato racchiudere in poche scene le vicende della propria famiglia nel caos del Novecento, dall’altro elevare quelle vite a una dimensione eterna.
Karpatenflecken è un condensato di stravolgimenti umani sotto lo sguardo di un paesaggio, i Carpazi, che pare immutabile. Non è un caso che sia proprio il paesaggio il primo a parlare: nel prologo, in un tempo «dopo il nostro tempo», il bosco e la montagna discutono della specie umana ormai estinta e con una vena di rimpianto ricordano i piccoli parassiti che li abitavano. Una volta che la natura ha parlato, la storia di quei piccoli organismi e del loro piccolo lembo di terra può iniziare.
Thomas Perle ci conduce così in un riassunto delle migrazioni, delle lotte identitarie e degli scontri politici che si sono susseguiti in una regione della Romania. Lo fa attraverso tre generazioni di donne – nonna, madre, figlia/nipote – che rispecchiano la biografia della sua stessa famiglia.
Classe 1987, Perle a quattro anni si è trasferito coi genitori in Germania. La sua città natale, Vișeu de Sus, si trova nella contea di Maramureș, nel nord della Romania, ed è qui, tra i boschi dei Carpazi, che è ambientato karpatenflecken, “macchie dei Carpazi”. La città ha anche un nome tedesco, Oberwischau; nel corso della storia fu meta di diverse migrazioni dai paesi germanofoni: nel XVIII secolo, su appello di Maria Teresa, vi si insediarono coloni dal Salzkammergut, in Alta Austria, e tagliaboschi dalla regione slovacca di Zips (o Spiš). È proprio nel particolare dialetto tedesco di Zips che sono scritte molte parti del testo di Perle – ma sulla spinosa questione linguistica torneremo alla fine.
La struttura drammaturgica corrisponde a una sequenza di scene senza ordine cronologico, che attraversano tutta la storia di Oberwischau, a partire dalla prima immigrazione dei coloni austriaci (pagus vissó circa annum 1770 primos accepit colonos germanos ex austria, recita una didascalia del testo) fino ai giorni nostri, passando per la Seconda guerra mondiale, la reggenza di Horthy, la cosiddetta magiarizzazione, la guerra fredda, la Repubblica Socialista di Romania, la rivoluzione dell’ ’89 e l’occidentalizzazione del paese.
Karpatenflecken è una sorta di bignami storico-teatrale che, consapevole della propria natura sintetica, non disdegna l’ironia nel raccontare complicatissime vicende geopolitiche di cui in Italia sappiamo poco.
Il Novecento viene raccontato attraverso le esperienze delle tre figure femminili. Non c’è, però, il banale narrare della nonna alla nipote o della madre alla figlia, bensì una sorta di compresenza del racconto e del fatto raccontato, dell’azione e della sua narrazione, che fa coesistere, per esempio, la nipote come traduttrice delle parole della nonna (che parla appunto il dialetto tedesco di Zips), la nipote come “didascalista” e la nipote come personaggio di episodi che non può aver vissuto. Il racconto scorre così fluidamente, in un rapido dentro-fuori dai fatti e in una sovrapposizione di piani temporali che lasciano molto gioco all’immaginazione del regista.
Ciò che accumuna ogni scena, e di conseguenza ogni periodo storico trattato, è il confronto della figura femminile con la propria identità e con la necessità di dover partire o tornare al proprio «luogo delle radici». Ogni generazione ha subito un’invasione o è stata a sua volta “invasore” – il termine va inteso nelle sue diverse accezioni: invasore come popolo che attacca e deporta, invasore come immigrato che non si vuole accogliere – ogni generazione è stata masticata dalla storia e sputata da qualche altra parte dell’Europa, ogni generazione ha sentito su di sé le “macchie dei Carpazi” e il bisogno inaggirabile di tornarvi.
Tra la storia con la s maiuscola e la piccola storia di una famiglia, Perle innesta alcune scene più liriche: tre cori di donne, all’inizio, a metà e alla fine dell’opera. Sono poesie cantate che amplificano verso l’alto la vita mortale della famiglia, preghiere, lamenti che connettono tre donne qualunque a una dimensione religiosa, che le sospendono dal flusso della storia sollevandole verso un paesaggio spirituale, un immobile e imperturbabile regno celeste. Se volessimo identificare una tensione che percorre tutto il testo, questa va da una sorta di fatalismo materialista (la montagna e il bosco che parlano della razza umana estinta) a un cristianesimo salvifico (le donne che cantano per entrare nel regno dei cieli).
Per quanto riguarda i diversi passaggi della vicenda umana, non è facile farne un sunto, ma proviamo ad abbozzarne uno per restituire la densità di scossoni che ha vissuto questo spicchio di Carpazi. La nonna, che parla appunto tedesco – e che, come avvisa Perle all’inizio, cambia nome «secondo la situazione politica / potenza occupante / luogo» – in seguito al secondo arbitrato di Vienna del 1940 (la Germania e l’Italia che costringono il regno di Romania a cedere un pezzo di Transilvania all’Ungheria) si ritrova a dover parlar ungherese in un paese che subisce la magiarizzazione forzata (cambiano i nomi e le gerarchie, tutto in funzione della nuova nazione dominante). Poi c’è l’entrata in guerra a fianco dei nazisti, che parlano tedesco ma che non considerano tedeschi quelli di Oberwischau. C’è la deportazione degli ebrei del paese che viene rimossa dalla memoria della comunità. C’è l’arrivo dei Russi e l’evacuazione forzata in Polonia. Poi il ritorno nella Romania socialista, la dittatura dei Ceaușescu («l’età d’oro / del comunismo kitsch» dice la figlia). Poi la rivoluzione dell’ ’89, il processo e la morte dei coniugi in diretta televisiva e la fuga della madre e della figlia in occidente, proprio in quella Germania che linguisticamente suona ancora come una patria, ma che invece le discrimina.
A proposito, questo è il confronto tra la nonna e la madre e il funzionario tedesco:
Che le migrazioni siano cicliche e che l’uomo sia in fondo il parassita di una natura che lo anticipa e gli sopravvive, Perle lo sottolinea soprattutto in una delle scene finali, quella temporalmente più vicina a noi. La sorella minore della nonna, nata sotto la reggenza di Horthy, rivendica, contrariamente all’altra, la propria identità di ungherese e di cattolica. In quanto tale si sente accerchiata in Romania e teme lo straniero, il nuovo immigrato. A un certo punto dice: «per eleggerlo / possiamo eleggere solo lui / perché solo lui ci protegge. / noi tutti cristiani / ci protegge da quelli / che vengono da lì. / lui. / orbán».
La nipote – che rappresenta chiaramente l’alter ego di Perle – è profondamente colpita dalle parole della prozia, ma lo è ancora di più quando scopre che la nonna, nonostante le proprie vicissitudini identitarie, concorda con la sorella. Entrambe, sopravvissute al Novecento e discriminate sia da oriente che da occidente, nel 2019 hanno paura dello straniero e si rimettono all’autorità di un uomo forte per difendere la loro comunità: «nen abbiam besogno dei nieri e degli arebi da noi». Quando la nonna, parlando degli immigrati mussulmani, dice: «che se ne tornessero da dove sono venuti», la nipote, lapidaria, chiude il testo così: «a noi lo hanno già chiesto una volta».
Come dice lo stesso Perle in un’intervista per il Burgtheater di Vienna in occasione della messa in scena del testo, la Mitteleuropa è sempre stata una terra di migrazioni: nessuna famiglia viene mai da un solo posto, il nazionalismo è di conseguenza un’idea insensata. La natura – i monti e i boschi dei Carpazi – e la spiritualità – il coro delle donne – sembrano, in karpatenflecken, le uniche dimensioni assolute capaci di resistere alla caducità della vita umana. Tutto il resto è una lingua in costante mutamento. Non rimangono né in confini, né le nazioni: siamo somme complesse di identità che possono trovare pace solo nella natura o nella preghiera. Questo è il coro delle donne che fa da epilogo al testo:
lassù
lassù
alla porta celeste
si trova una povera anima guarda fuori trèeste.povera anima
povera anima
vieni da me.
ché qui i tuoi abiti diventano sì tutti così puri.così puri e così
bianchi
così bianchi come la neve.
e così vogliamo andare insieme nel regno dei cieli.nel regno dei cieli
nel regno dei cieli
nel paradiso celeste.
dove è il padre, il figlio dove è dio, lo spirito santo.
Mi sembra doveroso, infine, affrontare la questione linguistica. È un tema centrale, l’unico che Perle tratta nell’avvertenza iniziale: «alcuni personaggi parlano rumeno e/o ungherese» scrive, «queste lingue dovrebbero essere gestite liberamente e ad arte. parlante madrelingua non espressamente richiesto». Poi arriva alla parte più spinosa: «allo stesso modo si parla il tedesco di zips/wischau. un vecchio dialetto austriaco, che è già mutevole di per sé per via del suo carattere orale». Questo dialetto, che racchiude la complessa identità di Vișeu de Sus/Oberwischau, è parlato soprattutto dal personaggio della nonna. Come trovare un’attrice che lo parli? O – ancora più complicato – come tradurlo in un’altra lingua? A questi dubbi Perle dà una risposta netta, ma a suo modo sibillina: «dovrebbe essere trattato come una lingua artificiale». Con questo consiglio registico sembra dirci: slegate il testo dalle contingenze dei Carpazi, lavorate sulle parole della nonna come se trattaste una lingua inventata ad hoc. È un suggerimento molto interessante, ma allo stesso tempo non semplice da eseguire: karpatenflecken è innestato in un preciso contesto storico e geografico, i riferimenti sono chiari e non si può sfuggire al fatto che sia una biografia dello stesso Perle. Trattare la lingua della nonna – che a livello di trama è necessario sia legata al tedesco – come una lingua fittizia potrebbe spiazzare lo spettatore o, peggio ancora, risultare comico.
Il lavoro della traduttrice italiana, Carlotta Pescatore, non è stato dunque facile, ma non si può non rimanere sorpresi dall’ibrido di accenti italiani che ha costruito per tradurre il dialetto di Zips. Se in alcuni momenti può ricordare certi dialetti alpini («maridà? perché nen son maridà? non c’è nessun òmo») – e l’accostamento Alpi-Carpazi potrebbe giustificare la scelta – in altri non si può non sorridere nel riscoprire una nonna pugliese («guarda cà beello. ma cà beello. lo bosco. lu aria. lu acqua»).
Nella traduzione, l’italiano prende il posto del tedesco originale, di conseguenza il rumeno e l’ungherese sono lasciate come sono – è compito della nipote tradurre per lo spettatore – mentre il dialetto tedesco è trasformato in uno pseudo dialetto italiano. L’impresa è difficilissima. Ci chiediamo: quale altra strada avrebbe potuto intraprendere la traduttrice? Non abbiamo una risposta che non sia radicale: il testo è utile che sia stato tradotto, ma va fatto in lingua originale. Metterlo in scena in italiano potrebbe facilmente risultare ridicolo, come certi doppiaggi cinematografici in cui gli operai dei sobborghi inglesi parlano in italiano di diaframma e in perfetta dizione DOP.
Questa considerazione va fatta a maggior ragione nel contesto di questa stagione di Calapranzi, dedicata ad autori e autrici che scrivono in altre lingue rispetto a quelle del paese in cui sono nati. La lingua, come racconta bene Perle, è tutt’uno con l’identità: la traduzione italiana di questo testo rimane un gesto prezioso per il lettore, ma rischia di diventare ingenuo per lo spettatore. Mettere in scena karpatenflecken in italiano è una “sospensione dell’incredulità” che vale la pena accettare?
Jacopo Giacomoni