In un articolo apparso sulla rivista Natural History del 1998, lo scienziato e divulgatore Stephen Jay Gould scriveva che, se si potesse fare un’istantanea di un processo evolutivo, ci si troverebbe davanti un’immagine in cui, da una parte, un unico organo svolge due diverse funzioni e dall’altra un’unica funzione è svolta simultaneamente da due organi differenti. E subito dopo aggiungeva che questa bizzarra sovrapposizione rappresenta in campo evolutivo un passaggio funzionale, poiché il creativo fermento evoluzionistico può raggiungere la sua piena complessità solo attraverso fasi di multitasking e ridondanza.
Questa immagine ritorna sia nelle parole del dramaturg statunitense Mark Bly che in quelle della newyorchese Katherine Profeta, come chiave di lettura per il lavoro del dramaturg entro un altro processo evolutivo: quello della creazione artistica.
Se la ridondanza può essere un obiettivo auspicabile, allora, aggiungiamo volentieri alle tante voci di questo focus Dramaturg quella di Profeta e in particolare quella della sua decennale esperienza con il coreografo Ralph Lemon.

Laureatasi alla Yale School of Drama, dove ancora oggi insegna, Profeta si interessa alla danza sin dagli anni dell’università. La collaborazione con Lemon risale al 1996, quando quest’ultimo avvia una nuova fase di sperimentazione nella sua carriera artistica: decide infatti di sciogliere la propria compagnia, la Ralph Lemon Dance Company, per ampliare le ricerche sulla danza contemporanea verso un orizzonte più internazionale. Il titolo della trilogia che scaturisce da questa nuova direzione di Lemon, a cui si fissa saldamente l’apporto di Profeta in qualità di dramaturg, non lascia dubbi riguardo la strada percorsa: fra il 1997 ed il 2004 nasce la Geography Trilogy, composta dalle opere Geography – Part 1 (1997), Tree – Part 2 (2000) e Come Home Charley Patton – Part 3 (2004), a cui seguirà l’opera del 2010 How Can You Stay in the House all Day and Not Go Anywhere.
Dopo anni di lavoro accanto a Lemon, nel 2015 Profeta pubblica per la University of Wisconsin Press un testo: un misto fra un saggio sul dramaturg e il memoir della sua attività di dramaturg. Il testo, che Profeta ha gentilmente condiviso come punto di partenza per esplorare il suo lavoro, si chiama Dramaturgy in Motion. At Work on Dance and Movement Performance, e meriterebbe una traduzione in italiano.

Nel libro Profeta si muove: fra gli anni in cui ha lavorato, gli spettacoli a cui ha partecipato, i perfomer che ha incontrato e soprattutto fra i ruoli e le definizioni che vengono associate al dramaturg. Ne cita alcuni nell’introduzione:

ricercatrice, editor, inquirente, catalizzatrice, storica, archivista, manager letterario, occhio esterno, occhio interno, difensore del pubblico, difensore di tutto fuorché del pubblico, testimone, levatrice, “tafano petulante”, amica e persino psicologa amatoriale. 

Racconta che spesso, prima di iniziare un lavoro, si ripete nella mente la lista, ma di questi termini non ne sposa nessuno come approdo definitivo. Piuttosto riconosce il potenziale del dramaturg in due qualità che hanno molto in comune con la danza: la fluidità, ovvero la capacità di muoversi fra una definizione e l’altra, e la ridondanza, ovvero la possibilità di appaiarsi a qualcuno che ha già fatto sua una di queste definizioni. Il primo termine ha chiaramente a che fare con la natura proteiforme del dramaturg, come la lista stessa testimonia. La ridondanza, quella necessaria a ogni processo evolutivo, appare invece un concetto quanto meno inaspettato se si considera la provenienza statunitense della dramaturg. Gli Stati Uniti, esportatori di taylorismo e dell’industria dell’intrattenimento, ai nostri occhi rappresentano l’ultimo dei luoghi ove celebrare lo “spreco” e il “superfluo”, parole conterranee del “ridondante”. Tuttavia Profeta, che pure evidenzia questo contrasto, non riesce a trovare per sé un terreno più fertile di quello in cui tutte le maestranze sono state assegnate e al dramaturg non resta nessun compito vitale da svolgere in solitudine.
Questo costate affiancamento a qualcun altro le permette di porsi su un piano diverso rispetto agli altri, un piano distaccato, non appesantito dalla zavorra della responsabilità della riuscita. Quando lavora accanto ai danzatori nelle prove, il dramaturg non deve andare in scena; al fianco del coreografo, non deve dirigere; immedesimandosi con gli spettatori, non può guardare e scoprire le stesse loro cose; quando si affianca a ciascun membro della compagnia come ricercatore, non rielabora i materiali allo stesso modo di ciascun altro. Ritorniamo allora all’immagine di Gould: quando tutte le funzioni sono state prese, il dramaturg esiste perché l’evoluzione lo richiede, senza altro scopo se non quello di affiancarsi a un organo già funzionante e fare necessariamente parte dello sviluppo dell’opera d’arte.

“How Can You Stay In The House All Day And Not Go Anywhere?”, BAM Harvey Theater, ottobre 2010. Foto di Stephanie Berger

Data questa definizione biologica del lavoro del dramaturg, Profeta organizza il materiale da lei raccolto negli anni lungo cinque direttrici operative: testo, ricerca, pubblico, movimento, interculturalità. Quest’ultimo aspetto caratterizza in modo particolare il suo lavoro.
Ripartiamo da quel lontano 1996. Ralph Lemon, coreografo afroamericano che ha appena sciolto la sua compagnia formata quasi interamente da danzatori americani bianchi, invia una lettera all’università di Yale, dove Profeta sta studiando, per richiedere supporto economico, creativo e logistico per la sua nuova ricerca.  Scrive:

In quanto afroamericano sottratto a ogni ovvia esposizione alla cultura africana da molte generazioni, vedo in questo progetto l’opportunità di addentrarmi in alcune caratteristiche comuni – una intersezione fra la mia vita e il mio lavoro con quello che personalmente percepisco (forse idealizzandolo) come un’esperienza primigenia di danza e performatività africana. Nella mia idea, questi artisti stranieri portano al mio modo di fare danza un senso quasi imperscrutabile, una misteriosa conoscenza della tradizione panafricana della danza e del teatro. Spero, nella mia visione estetica, di infrangere questi miti e di trovare un linguaggio che conduca il gruppo di lavoro ad un esito che non sia idealizzato o estremamente esotico, ma che sia genuino e nuovo nelle sue forme.

All’appello l’università di Yale risponde con la persona di Katherine Profeta che, durante tutto il percorso artistico di Lemon da qui in avanti, sarà una delle poche persone bianche presenti alle prove. Lei vede nella propria formazione accademica americana, oltre che in ciò che implica il proprio colore della pelle, un anello di collegamento fra il lavoro passato di Lemon e quello futuro. E, comprendendo il tipo di ibridazione culturale che il coreografo cerca, individua come costante del suo lavoro di dramaturg il ruolo di mediatrice e tutore dello scambio interculturale.

Djédjé Djédjé Gervais e Ralph Lemon, foto di David Thomson

In Geography – Part 1, opera inizialmente pensata come unicum e poi diventata inizio della trilogia, Lemon invita negli Stati Uniti dei danzatori ivoriani e guineani, mentre fra gli artisti americani che collaborano al progetto c’è anche la poetessa Tracie Morris, che scrive alcuni testi da far recitare ai performer. Ma i danzatori sono francofoni: per ovviare al problema si pensa dunque di insegnare loro l’inglese. Profeta assiste per caso a una delle lezioni che si tengono prima delle prove e associa immediatamente l’immagine dei sette perfomer seduti in proscenio, intenti a ripetere i suoni che il vocal coach dice loro, con l’immagine di un insegnante bianco in una scuola coloniale. Dal suggerimento della dramaturg si ridiscute dell’uso che Lemon e Morris vogliono fare dei dialoghi. Si decide di abbandonare l’inglese e di usare il francese, perdendo così il senso delle parole ma mantenendo vivi gli effetti che esse producono. In scena si costruisce un dibattito, il cui contenuto è incomprensibile per un pubblico anglofono. Ma la gestualità, le intenzioni e le risposte che si inscrivono nei corpi che discutono diventano un testo persino più forte dello stridente inglese dei danzatori. Nasce così il segmento di performance Tire Talks.
Il dibattito e il dialogo, scrive Profeta, sono degli strumenti fondamentali per la negoziazione della comprensione e del consenso. Conscia di questo, decide di trascrivere nel suo quaderno molte delle discussioni che avvengono durante le prove. E poiché il processo di scambio e ibridazione necessita, più di ogni altra cosa, di tempo, spesse volte la dramaturg ripropone stralci di questi dialoghi a distanza di giorni, come punto di partenza per un nuovo sviluppo dialettico o come nuova ridefinizione dei limiti della ricerca.

La pregnanza del dialogo diviene poi fondamentale nella seconda opera della trilogia, Tree – Part 2. Dopo un viaggio a Bali, Lemon decide di estendere lo spazio di ricerca anche all’Asia. Lo stimolo per questa apertura è da ricercarsi, come per Geography – Part 1, nella biografia del coreografo, che, dopo una ricerca etnica, si spinge a una ricerca spirituale verso le radici del buddismo. Vengono richiamati alcuni dei performer ivoriani e guineani e a questi si aggiungono artisti e artiste taiwanesi, cinesi, giapponesi e indonesiani. Davanti a tante provenienze culturali diverse, Profeta assume su di sé, in quanto dramaturg, anche il ruolo di ospite, cioè chi si prende cura dei performer e della loro salute non soltanto fisica ma anche psichica e culturale. Racconta, a ragione, di come il lavoro che lei e Lemon stanno compiendo deve essere una collaborazione e non la semplice raccolta di storie. Nel rispetto di questa collaborazione, Profeta dialoga personalmente con i performer non solo durante il periodo delle prove ma anche successivamente, con interviste via mail quando ciascuno è già tornato in patria e da lì rielabora quella che è stata l’esperienza. Domanda loro cosa hanno guadagnato come danzatori da un lavoro di gruppo così composito, si informa sulle intenzioni o meno di tornare a collaborare, ripercorre quelli che le sono sembrati i punti di snodo più dolenti dell’ibridazione e si assicura che nessuno si sia portato dietro dubbi o inquietudini non risolte.

Ralph Lemon, Come Home Charlie Patton

Il modo di ballare dei performer africani che ho visto non era semplicemente un modo “giù in basso” totale, mi sembrava piuttosto che organizzassero il corpo dividendolo a metà alla cintura, con la metà inferiore che gettava il peso al suolo ma la parte superiore che si allungava verso l’alto e l’esterno, estendendosi fino al cielo. Il corpo di Ralph si spingeva fuori dal terreno nella sua interezza, resistendo invece che enfatizzando la gravità. […] Oppure, nei momenti in cui era diviso a metà, era la parte superiore che preferiva esser vinta dalla gravità e non quella inferiore. D’altro canto i danzatori africani avevano un senso del ritmo molto più elevato tenendo la parte inferiore del corpo ancorata più pesantemente. […] E i danzatori africani avevano (anche) un senso della simmetria molto più spiccato nei movimenti, per cui un gesto fatto con la parte destra del corpo era spesso ripetuto dalla parte sinistra. […] Ralph e Carlos invece rifiutavano la simmetria e la ripetizione in una maniera quasi patologica, sempre dietro a “cambiare”.
Ciò che ha reso queste osservazioni qualcosa di più che delle pedanti annotazioni è stata la loro capacità di mostrarmi la maniera in cui saremmo potuti arrivare a una proficua ibridazione.

Così la dramaturg suggerisce a Lemon di mostrare ai performer i movimenti che loro stessi stanno eseguendo. Il tentativo di replica risulta, date le premesse, sporco e impreciso, distante dai movimenti originali, quasi fallimentare. A quel punto entra in campo l’ibridazione, un metodo di contaminazione libera: dopo la dimostrazione di Lemon i danzatori non devono più tornare a fare i loro movimenti, ma la copia monca che Lemon ha creato. Così anche loro, proprio come il coreografo, si trovano di fronte a qualcosa di contemporaneamente conosciuto e nuovo, destinato a diventare diverso ancora una volta nel loro rimaneggiamento. E lo scambio porta a una sintesi su un altro livello, precedentemente sconosciuto a entrambe le parti.

Invece, durante uno dei primi workshop legati a Tree – Part 2, poco dopo il rientro di Lemon da Bali, il gruppo sta lavorando sull’improvvisazione. Fra i partecipanti c’è una danzatrice giapponese, Asako Takami, che si è specializzata in India nella danza Odissi. Quando arriva il suo turno, Takami si rifiuta di improvvisare e decide di mostrare una coreografia della Odissi, sostenendo che la sua idea di libertà è già contenuta nella sua danza e che non sente la necessità di romperla, come invece Lemon si auspicherebbe da questa ricerca. L’intuizione di Profeta in questo caso è salvifica per i successivi sviluppi: l’ibridazione che si sta cercando è già avvenuta nella performer, che aggiunge alla sua formazione indiana una naturale componente cinestetica giapponese. Il lavoro che il coreografo deve svolgere in questo caso è costruire il giusto frame attorno a cui Takami possa semplicemente raccontarsi e dialogare con gli altri corpi.

Ralph Lemon, Come Home Charlie Patton

Ma cosa succede l’alterità con cui fare il compromesso coincide con sé stessi? Cosa succede se, nella ricerca verso cioè che è fuori, si rientra in sé stessi e il passato si fa improvvisamente vicino? È ciò che accade nella terza e ultima tappa del viaggio di Lemon e Profeta, in Come Home Charley Patton – Part 3. Charley Patton è il famoso “Padre del Delta Blues”, il chitarrista e cantante che ha aperto la strada agli afroamericani del delta del Mississippi nel mondo della musica. Così, dopo l’Africa e l’Asia, è il momento per Lemon di tornare negli Stati Uniti e confrontarsi con le proprie radici familiari, quelle degli afroamericani del sud. In questo contesto l’altro è ovviamente il bianco: lo spettatore bianco fra il pubblico, ma anche la bianca Katherine Profeta che, mai come adesso, in qualità di dramaturg, deve diventare quell’ “avvocato del pubblico” a cui spesso il suo ruolo viene ridotto.
Profeta è la prima persona bianca che segue il lavoro di Lemon e, conscia del percorso, delle ricerche e delle intenzioni dell’artista, deve posizionarsi a una certa distanza per intavolare un dialogo ex novo con l’opera. Il suo sguardo diventa il più prezioso di tutti perché evita il paternalismo e spinge l’opera a essere per il pubblico uno stimolo di riflessione e analisi, non una lezione di storia o una commemorazioni posticcia.

C’è, in Come Home Charley Patton – Part 3, il confronto con una delle pagine più brutte della storia statunitense: quella dei linciaggi. Lemon e i suoi performer svolgono pellegrinaggi sui luoghi dei linciaggi nel sud degli Stati Uniti. Creano dei piccoli rituali impercettibili, come dormire in una stazione dei bus dove tre uomini furono uccisi e impiccati. Si tratta di gesti minimi che vogliono passare inosservati, che richiedono solo la testimonianza dell’universo, senza «disturbare l’ecologia del giorno corrente», scrive Lemon. Altre volte questi si reca a casa dei parenti ancora in vita di vecchi cantanti blues e jazz e (sempre ripreso dalla figlia) balla per loro, e solo per loro, sulle note e le voci dei nonni o degli zii.

Lemon vuole assemblare questi materiali nell’opera finale, come se stesse costruendo un contro-monumento, avendo in mente la famosa fontana che Horst Hoheisel realizza a Kassel: una guglia che svetta sottoterra e lascia agli occhi delle persone solo la sua base, mentre l’acqua scorre sotto la piazza, per non colmare il vuoto della fontana distrutta dai nazisti durante le persecuzioni ebraiche nella città. L’intento di Profeta è quello di aiutare il coreografo affinché i vuoti che questi decide di lasciare siano in grado di parlare.

Horst Hoheisel, Aschrott Fountain Memorial, 1987

Profeta si trova più volte a domandarsi quanta libertà abbia una persona bianca di intervenire nel lavoro artistico di un afroamericano e allo stesso modo Lemon si domanda fin dove un artista afroamericano possa spingersi con le azioni e le parole. Un caso di grande interesse, in proposito, riguarda quella che in inglese viene ormai citata come “n word” (la parola che inizia per n che un tempo veniva utilizzata per indicare gli afroamericani). In Come Home Charley Patton – Part 3 la performer afroamericana Okuwi Okpokwasili, tramite l’autofiction, racconta un suo ricordo d’infanzia, quando fu insultata da una compagna di classe. Ovviamente la storia è piena di “n word”. Profeta racconta che Lemon non era a suo agio nella ripetizione di questo termine sul palcoscenico, dunque aveva deciso di far suonare un cembalo a un perfomer ogni volta che Okpokwasili diceva la parola. Ma già alla prima prova aveva notato che il performer suonava il cembalo solo dopo aver sentito la parola, non riuscendo nel tentativo di censura. Quindi Lemon propone a Okpokwasili stessa di autocensurarsi. A quel punto Profeta suggerisce che sia Lemon a suonare il cembalo, in quanto lui è l’unico in sala prove che sente il bisogno di censurare quella parola in scena.

Un coreografo afroamericano, che vuole togliere dalla propria opera ciò che è ancora percepito come un insulto, ascolta il consiglio di una dramaturg bianca, che invece lavora a favore dell’opera. In un orizzonte aperto e curato, persino l’evoluzione ci appare meno semplice e lineare, più ricca e complessa.

Gianmarco Marabini


in copertina: Katherine Profeta e Ralph Lemon, foto ufficio stampa

Le citazioni sono tratte da Profeta Katherine, Dramaturgy in Motion. At Work on Dance and Movement Performance, Wisconsin University Press, 2015 e sono state tradotte da Gianmarco Marabini.