Recentissimo vincitore del Premio Nacional de Literatura Dramática 2020, Guillem Clua (classe 1973) è uno degli autori catalani che si sono formati agli inizi degli anni Duemila presso la Sala Beckett di Barcellona. Autore per il teatro e la TV, librettista e dramaturg per la danza, il suo nome potrebbe non suonare totalmente sconosciuto al pubblico italiano di lungo corso: difatti già tre dei suoi lavori sono stati rappresentati in Italia. Si tratta di Marburg, messo in scena da Eleonora Pippo al Teatro Argentina di Roma nel 2013; Smiley, che è stato rappresentato in Italia al Nuovo Teatro Santità di Napoli nel 2017 per la regia di Rosario Sparno; e La rodine – La canzone di Marta (titolo originale: La golondrina) di cui nel 2018 sono stati fatti sia uno spettacolo al Teatro Stabile di Catania, per la regia di Francesco Randazzo, sia una lettura scenica al Teatro Argentina di Roma. Assente invece dai palchi italiani, ma già presente in Spagna, Francia, Grecia, New York, New Jersey e persino Romania – dove ha visto la sua prima mondiale al Teatro Odeon di Bucarest, per la regia di Bobi Pricop – è il testo del 2016 Kepler-438B (La terra promessa).

Kepler-438B (La terra promessa) nella messa in scena di Bobi Pricop, Teatro Odeon, Budapest, 2016

Lʼanno è il “duemilaequalcosa” (quanto sia lontano da noi sarà la Storia a dircelo), gli scioperi di Greta Thunberg sono stati inutili, le sue ambasciate sono arrivate forse troppo in ritardo e i poli ormai si sono sciolti. Le acque alte hanno cancellato Venezia, lʼOlanda e il Bangladesh, e le nuove acque navigabili hanno innalzato il Canada ai ranghi di potenza internazionale, sostituendola agli Stati Uniti nella lunga guerra egemonica contro la Russia. Il profondo cambiamento climatico e morfologico a cui il mondo sta assistendo è persino riuscito a pacificare Israele e Palestina, mentre la Grecia è dal 146 a.C. che si gode stoicamente dalle ultime file del potere il susseguirsi delle epoche, sgranocchiando olive senza troppo rimpiangere la supremazia di una volta.

Fra gli stati a rischio di sommersione cʼè la Repubblica di Malvati, un immaginario arcipelago composto un tempo da venti isole ma di cui ora rimane solo la capitale Bucaca. Su questa, protetti da dighe prossime al cedimento, si sono rifugiati i 30.000 abitanti dellʼex-arcipelago. Il futuro è tutto fuorché roseo per quella che doveva essere una rinomata meta turistica internazionale (tanto da meritarsi lʼappellativo di “collana di perle dell’Oceano Indiano”), ma della cui esistenza, ahinoi, nessuno pare più ricordarsi. Per salvare la propria popolazione dalla catastrofe, il presidente Vincent Shawen, assieme alla Segretaria di Stato e figlia Christine Shawen ed il Ministro degli Affari Esteri, Kavi Altaff, si reca al quartier generale delle Nazioni Unite a New York. Lì compie un gesto che è, letteralmente, la sua ultima spiaggia: si presenta davanti allʼAssemblea Generale in muta da sub e tiene, così vestito, il discorso che dovrà salvare il suo popolo. Lʼabbigliamento, più che il contenuto dellʼaccalorato appello, suscita unʼimmediata risposta del web e, di conseguenza, anche quella di svariati capi di stato, che si mettono in contatto con il presidente: chi per offrire consigli su come rassegnarsi serenamente alla fine, chi per cedere loro gratuitamente terre spoglie e inospitali.


Da Kepler-438B (La terra promessa), 3

Ufficiale: Repubblica di che?

Vincent Shawen: Di Malvati.

Ufficiale: Mal-che?

Vincent Shawen: Malvati.

Ufficiale: Vuole dire le Malvine.

Vincent Shawen: No. Malvati.

Ufficiale: No, vorrà dire le Maldive allora.

Vincent Shawen: Mal-va-ti. M-A-L-V-A-T-I. Malvati.

Ufficiale: Non esce nulla cercando Malvati, mi spiace.

Vincent Shawen: Cosa significa che non esce nulla? Nulla dove?

Ufficiale: Nella lista.

Vincent Shawen: Che lista?

Ufficiale: La lista degli stati membri delle Nazioni Unite. Ho tutti i loro nomi qui nel computer e il suo non c’è.

Vincent Shawen: Cerchi ancora, ci deve essere. Fra Malta e Messico, più o meno.

Ufficiale: Fra Malta e il Messico ci sono 8000 chilometri, caro signore, quindi l’informazione non è di nessun aiuto.

Vincent Shawen: Fra Malta e Messico in ordine alfabetico.

Ufficiale: Vuole dire che il suo è un vero stato?

Vincent Shawen: Che razza di domanda è questa?

Ufficiale: Una volta mi si è venuto a presentare un ambasciatore della Repubblica di Mordor.

Vincent Shawen: Signore, non è la stessa cosa.

Ufficiale: Mi disse che dalla sconfitta di Sauron avevano instaurato una democrazia bicamerale a voto diretto. Giurava che si trovasse fra la Mongolia e il Mozambico.

Vincent Shawen: Ascolti, non mi sono inventano nessuno stato. Esiste da secoli.

Ufficiale: Si vede allora che non comparite mai sui giornali. Avete invaso qualche stato di recente?

Vincent Shawen: No, ma—

Ufficiale: Vi ha invasi qualcuno allora?

Vincent Shawen: No, ma—

Ufficiale: Siete una sorta di paradiso fiscale?

Vincent Shawen: No, ma—

Ufficiale: Esportate materie prime o lavorati che siano di vitale importanza sulla bilancia del commercio internazionale e/o abbiano un elevato valore intrinseco?

Vincent Shawen: Nessuna delle due.

Ufficiale: Avete sofferto di una terribile carestia, o una terribile guerra, o altri terribili disastri di cui dovremmo essere a conoscenza?

Vincent Shawen: Questo sì. Il nostro intero arcipelago è affondato nell’oceano.

Ufficiale: Mi dispiace.

Vincent Shawen: Anche a noi.

Ufficiale: Ma questo non è di nessun aiuto. Una volta è venuto un uomo ad annunciare che aveva trovato Atlantide e che voleva esserne proclamato capo di stato.

Vincent Shawen: Può smettere di parlare di Malvati come se fosse un paese fittizio?

Ufficiale: Fittizio o sommerso, ai fini pratici sono la stessa cosa, non trova?

Vincent Shawen: Al mio stato resta ancora un po’ di territorio.

Ufficiale: Non mi ha appena detto che è tutto sprofondato nell’oceano?

Vincent Shawen: Bucaca è resistita alle onde.

Ufficiale: Non ho la minima idea di cosa stia dicendo.

Vincent Shawen: É per questo che mi lamento. Come può lavorare alle Nazioni Unite e non sapere dell’esistenza di un intero stato? Non credo alle mie orecchie.

Ufficiale: Mio caro signore, non le permetto di mettere in discussione la mia professionalità.

Vincent Shawen: E io non intendo lasciarci cancellare dalle mappe dalla sua ignoranza. Come se non avessimo già abbastanza problemi a causa del cambiamento climatico.

Ufficiale: Non si metterà a parlare del tempo adesso?

Vincent Shawen: Non li legge i giornali?

Ufficiale: Solo i riassunti dei titoli. Guardare il computer tutto il giorno mi sfianca e mi dà una forte emicrania, proprio qui, sul lato sinistro.

Vincent Shawen: E cosa ha letto oggi?

Ufficiale: Che un pazzo vestito da sommozzatore si è introdotto all’Assemblea Generale.

Vincent Shawen: Esattamente. Quell’uomo ero io.

Ufficiale: Security!


La sequenza di incontri tra Vincent e i rappresentanti dei vari stati mondiali consente a Clua di condurre unʼindagine farsesca e divertente per i luoghi comuni dei vari popoli: ricerca non immune da una certa irriverenza che caratterizza la sua scrittura, come nel dialogo lampo fra Christine e il delegato israeliano («Israele: Nessuno ci ha mai prestato attenzione fino a che la nostra gente è stata quasi sterminata. A voi cosa è capitato? / Christine: Mio padre si è travestito da sommozzatore. / Israele: Beh…. è un inizio, mi pare»).

Non si deve dunque cadere nell’errore di associare la seria tematica ambientale e politica e la ancora più seria ambientazione post-apocalittica ad una serietà linguistica che Clua non percorre. Il linguaggio è quello da commedia brillante, basato su assonanze, giochi di parole e stridenti accostamenti che, come si è visto, vanno persino a scomodare l’olocausto per affiancarlo a una muta da sub. Vi è, nella scrittura di Clua, un invito a non prendersi sul serio, a non prendere sul serio il mondo politico contemporaneo, che è guardato con un distacco quasi rinascimentale, che ricorda i Ragguagli di Parnaso di Traiano Boccalini e manda di rimbalzo alla satira romana. Clua potrebbe anche essere un Machiavelli che descrive, da una certa distanza, come la storia tenda a ripetersi in un movimento a spirale che ripropone le stesse dinamiche e situazioni di potere. Indizio di questa linea poetica è la descrizione dei personaggi data dall’autore: tutti i rappresentati delle nazioni devono essere interpretati dal medesimo attore, ufficiale compreso, con la sola differenza, l’uno dall’altro, di un cappello, magari di una bandiera, per meglio identificare lo stato.
Allʼinterno di questa ruota che gira, sempre identica ma leggermente diversa, si trova il giudizio dissacrante che il drammaturgo catalano si lascia sfuggire, non troppo velatamente, sulla Spagna. Quando il presidente della repubblica di Malvati incontra il rappresentate spagnolo, questi offre ai malvatiani l’intero stato a patto che loro abbandonino lingua, costumi e tradizioni proprie, per abbracciare la loro nuova cittadinanza spagnola. Il riferimento è chiaro: il destino dei malvatiani è quello dei baschi prima e dei catalani poi, i quali, mentre Clua scriveva l’opera, si preparavano ad un nuovo referendum per l’indipendenza.

Kepler-438B (La terra promessa) nella messa in scena di Bobi Pricop, Teatro Odeon, Budapest, 2016

Alla post-apocalittica ricerca di una nuova terra, di ovvia ispirazione veterotestamentaria, si sovrappone un ulteriore livello di narrazione, totalmente privato, ma anchʼesso in realtà di matrice biblica: il triangolo familiare formato da Vincent, Christine e Kavi, che rimanda a quello tragico di Saul, Micol e David. Il presidente Vincent Shawen è infatti segretamente osteggiato da Kavi Altaff, il quale spera di vedere a capo dello stato qualcuno che sia più aperto al cambiamento, meno legato alle tradizioni, qualcuno che non si opponga così vistosamente all’amore che egli prova per Christine: seppur ricambiato, i due devono vivere di nascosto questo amore, per via del sangue non puramente malvatiano di Kavi.
Nelle scene in cui questi tre personaggi interagiscono, il linguaggio si smorza un poco e acquista un sapore più melodrammatico, da storia d’amore o da grandi gesta dei personaggi d’opera. Primo ad incarnare questi toni è Vincent Shawen, i cui interventi sono parodisticamente tragici e pieni di pathos. E così anche i suoi gesti, a partire dal coup de théâtre iniziale, la muta da sub, fino al tentativo di suicidio finale. Infatti, lo stato di pericolo per la Repubblica, la deposizione che Kavi e Christine riescono a mettere in atto, la confessione della loro relazione, a cui si va ad aggiungere la notizia della recente gravidanza di Christine, spingono Vincent verso la soluzione ultima: buttarsi giù dal palazzo delle Nazioni Unite, con lo scopo, non secondario, di portare nuovamente all’attenzione dell’opinione pubblica il nome della Repubblica di Malvati.

Kepler-438B (La terra promessa) nella messa in scena di Bobi Pricop, Teatro Odeon, Budapest, 2016

A salvarlo dalla morte sarà, più che l’intervento della figlia e del futuro genero, la chiamata del rappresentate degli Stati Uniti, fino ad allora grandi assenti al tavolo delle offerte. Con loro, il privato torna a mescolarsi col pubblico, e ritorna così anche la satira: nel futuro immaginato da Clua la federazione americana si è totalmente chiusa in se stessa, ha eretto i dovuti muri e ha abbandonato il ruolo di leadership internazionale, riscoprendo la propria identità in un severissimo cattolicesimo. In nome di questo cristianesimo integralista, la presidente degli USA, la prima donna a ricoprirne il ruolo, nega la terra ai malvatiani a causa della gravidanza di Christine, ora nuovo capo di stato, che ha osato concepire fuori dal sacro vincolo del matrimonio. Come nel caso spagnolo, anche il dialogo americano è impregnato di riferimenti alla contemporaneità, nella fattispecie alle presidenziali del 2016 (anno che, del resto, coincide con quello della stesura del testo): dai muri di Trump fino al cattolicesimo sfrenato, compresa la figura della presidentessa donna, immagine ribaltata di Hillary Clinton. Le motivazioni che gli Stati Uniti adducono per negare il loro aiuto portano Christine a porsi delle domande, forse le uniche serie in tutto il testo, riguardo il senso della vita, inteso proprio come dare alla luce, procreare.


Da Kepler-438B (La terra promessa), 15

Christine: Papà, cos’è più importante? Una persona che ancora non esiste o 30.000 che dipendono da noi?

Kavi: Non dire che non esiste, ti prego…

Christine (a Vincent): L’hai detto tu stesso sul tetto. Un capo di stato deve sapere prendere delle decisioni difficili per il suo popolo. Ed è esattamente ciò che sto facendo.

Vincent rimane in silenzio, perché, per quanto faccia male accettare che suo nipote non verrà al mondo, capisce perfettamente le ragioni di Christine. Kavi capisce che Christine lo ha convinto.

Kavi: Vincent…

Vincent Shawen: Temo che Christine abbia ragione.

Christine: É la cosa migliore per tutti. Avevamo un po’ perso la testa. In effetti mettere a questo mondo un bambino è… è assolutamente folle.

Kavi: Perché dici così?

Christine: Perché il mondo sta annegando, Kavi! E a volte credo che non sia perché il livello dei mari si sta alzando […]


Dopo questo momento di irripetibile serietà, Clua conduce il lettore alla scena finale, un lungo monologo di Christine – forse non la stessa Christine che ha parlato finora. Forse è una sua omonima antenata, intenta a narrare la storia delle origini dell’arcipelago di Malvati. Forse una pronipote della Christine segretaria di stato, poi presidentessa, che racconta la mitologica storia di come, nell’anno “duemilaequalcosa” un gruppo di malvatiani fuggirono da un mondo quasi interamente sommerso dalle acque, abitato da popoli fratelli ma in lotta fra loro per la sopravvivenza, e arrivarono su quella terra che ora abitano.
Il mito è l’unico spazio in cui Clua si permette la serietà. L’ombra di Malvati, eroe mitologico dello stato, è un personaggio che vive sulla scena, passa di bocca in bocca, dalla prima narrazione che ne fa Kavi in pubblico, durante una conferenza stampa, fino al dialogo immaginario che Vincent, in preda all’alcol, ha con lui. E nel finale si fonde alla voce di Christine: attraverso di lei parla e fa pensare a chissà quante delle azioni grandi e piccole di questo mondo resteranno a chi verrà dopo.

Gianmarco Marabini

(Foto di copertina: Enrique Toribio)


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente in spagnolo e in catalano con una mail a [email protected]