“Occhio umano non poté mai udire, orecchio umano non poté mai vedere, mano umana non poté mai gustare, lingua umana mai concepire, e cuore umano mai narrare, un sogno come il mio.” (W.Shakespeare, Sogno di una notte di mezza estate).
Quali altri versi avrebbero potuto meglio descrivere la vocazione “multidisciplinare, multisensoriale e inclusiva” della XIIa edizione di Kilowatt? Quest’anno a Sansepolcro la parola d’ordine è stata infatti “sentire”, intesa in tutte le sue possibili accezioni. Dall’udito la polisemia della percezione si allarga presto a tutti gli altri sensi (l’olfatto, il gusto, il tatto, la vista) per includere infine le emozioni dello spettatore.
Kilowatt ha sempre mirato ad un coinvolgimento attivo del pubblico. Il suo direttore artistico – Luca Ricci – non desidera solo aprire il festival a nuove fasce di pubblico ma stimolare negli spettatori la capacità di vedere e si sentire. I due appuntamenti che nel corso della settimana (dal 19 al 26 luglio) già ricca di eventi hanno saputo declinare al meglio questo esercizio alla/della visione sono stati “Il Centro della Visione” – ideato da CapoTrave/Kilowatt, Laboratori Permanenti e condotto dall’antropologo Piergiorgio Giacchè – e gli incontri mattutini dei visionari, vera peculiarità del festival. Pur con modalità e obiettivi diversi, questi due progetti si sviluppano lungo tutto l’anno e su più anni, e sono veri e propri “cantieri aperti” dello spettatore.
Il Centro della Visione si sviluppa in tre annualità (rispettivamente a prima vista, a guardar bene e un ultimo sguardo) e propone un percorso di riflessione sul ruolo dello spettatore e sullo “sguardo”, grazie anche a una ricca serie di incontri/esperienze con artisti, studiosi e critici (Mario Perrotta, Pathosformel, Claudia Cannella, etc). La sua finalità non è quella di formare un pubblico più esperto o competente perché ricco di nozioni, ma di creare “esperienza”. Spettatori più attivi e ricettivi appunto, capaci di vedere e di guardare meglio. Questa riflessione sul soggetto che guarda interpella inevitabilmente il teatro (theâsthai “guardare”) e la definizione stessa di spettacolo. Uno spettacolo è tale se induce alla “messa in atto” della visione e non solo a una semplice fruizione. La visione (intesa come vedere, guardare e di nuovo vedere ciò che si è guardato) è perciò sempre il risultato di una relazione. Agli spettatori di Kilowatt è stato è stato perciò affidato il compito di riscoprire o reinventare quale posto occupare nel quadro di questa relazione. Ed interrogarsi sul proprio ruolo non è stato che il primo passo per tornare a essere protagonisti dell’evento teatrale.
In questo percorso il confronto con alcuni artisti “portatori di visioni” è stato un altro momento fondamentale. Durante i giorni del festival l’incontro si è tenuto con Claudio Morganti, insieme a Nerval Teatro (Maurizio Lupinelli e Elisa Pol) e Rita Frongia. La presentazione di Canelupo Nudo a Kilowatt è stata per il regista l’occasione per parlare della sua “visione” del teatro. Praxis è la parola che definisce meglio il suo lavoro: una ricerca aperta e permanente che rifiuta di fissarsi in una forma o struttura riconoscibile, in un prodotto finale. Morganti vive la scena in una dimensione di perenne immanenza e di scomodità, necessarie affinché il teatro possa “accadere” ed esistere nel qui-e-ora. La scrittura purulenta e urticante di Werner Schwab ne La mia bocca di cane e più in generale nei drammi fecali si è prestata perfettamente a questa ricerca della vertigine. Rita Frongia definisce la lingua di Schwab incandescente e intraducibile – “una bocca amara che libera commedia” – ma capace, grazie alle dislessie visionarie di Lupinelli, di esplodere in scena. Il lavoro è iniziato da alcuni abbozzi di testo, da piccole suggestioni ed è inciampato poi nella concretezza della scena, nella fisiologia degli attori. Lo spazio scenico ha preso così forma, organizzandosi attorno a due poli. Da una parte l’ossessione fecale che impregna ogni cosa: la merda/merdra declinata e urlata in ogni sua forma, e che diventa una presenza urlata e sporca degli attori. Dall’altra la fragilità e il lirismo di una coppia sguaiata e deforme, alla ricerca di piccoli momenti di bellezza. A fare da cerniera tra queste due polarità, irrompono improvvisi squarci di luce e suono: vere interferenze visionarie. Certo, per il pubblico non sempre è facile seguire lo sviluppo dello spettacolo, ma Morganti non chiede un atto di consenso ma una simultaneità di smarrimento e coinvolgimento: ovvero uno spettatore “scoinvolto”.
Anche se assente dal calendario ufficiale de “Il Centro della Visione”, un altro appuntamento che si è fatto portavoce di questa istanza visionaria è stato Il retro dei giorni, secondo capitolo della trilogia Memento mori – icone della fine della compagnia romana Clinica Mammut. Nonostante la fredda risposta del pubblico, è certamente un lavoro da ricordare. Non solo per la sua scrittura densa e stratificata – quasi colma – ma per la sua incapacità di finire e il continuo slittamento di senso. Questo modus operandi costringe infatti lo spettatore a un’operazione di sedimentazione e riflessione successive, quasi per assimilazione del processo creativo. “Consumate tutte le grandi narrazioni” la vana ricerca di senso non può che procedere allora per sovrapposizioni, iperboli o restringimenti, per ripetizioni di temi e gesti con microvariazioni, senza mai trovare un giusto posizionamento. Slittamenti appunto. Post-rizomi. Alessandra Di Lernia e Salvo Lombardo attraversano senza uscirne questa crisi immanente. Una crisi di significati e di segni (prima che economica). Tentano con queste manovre “semiotiche”, una faticosa uscita dal post-drammatico. Faticosa per il palco e per il pubblico ma coraggiosa.
Gli incontri con i Visionari, i Fiancheggiatori e gli artisti sono stati invece il secondo esercizio alla visione più interessante del Festival. I Visionari sono un gruppo di “non addetti ai lavori” che nel corso dell’anno ha il compito di visionare e selezionare alcuni degli spettacoli che entreranno nella programmazione di Kilowatt e che successivamente, durante i giorni festival continua ad animare la discussione sugli spettacoli scelti, interpellando le stesse compagnie e alcuni critici (fiancheggiatori dei loro processi creativi). Secondo lo spirito del Festival l’arte e la cultura sono sempre una creazione collettiva (poiché riflettono lo spirito del tempo) e lo spettatore in quanto parte di questa costruzione, non solo deve cercare di vedere meglio ma può aiutare gli artisti a vedere con altri occhi, restituendo loro altra bellezza, nuove idee e immagini: un mutuo e proficuo scambio di sguardi.
Due spettacoli della selezione “visionari” hanno accesso importanti discussioni nell’ultima serata di Kilowatt, sia negli incontri ufficiali che in quelli più informali: Invidiatemi come io ho invidiato voi di Tindaro Granata e Trovata una sega! di Antonello Taurino. Pur partendo da eventi di cronaca molto diversi fra loro – il primo, da un episodio di pedofilia avvenuto proprio tra Città di Castello e Sansepolcro e il secondo, dall’inverosimile ritrovamento a Livorno delle teste scolpite da Modigliani – i due artisti offrono un’attenta riflessione sulla società italiana. Di ieri, di oggi, di sempre. Granata apre una ferita ancora viva nella comunità biturgense, non del tutto pronta a una drammatizzazione della vicenda. Anche se la drammaturgia è costruita sulle testimonianze contenute negli atti processuali, l’attore e regista siciliano offre uno sguardo impietoso e indigesto sul vero carnefice delle violenze ma anche sulla complicità di molti, di tutti: dalla famiglia al vicinato. Complici perché presi nel mutismo delle loro invidie ed egoismi. Diverso invece il lavoro di Taurino che si avvale di un divertito mimetismo per riproporre una sintesi dell’italianità attraverso una ricca galleria di personaggi e tipi umani. Uno fedele spaccato di quegli anni ’80 in cui erano già visibili i segni della nostra futura (attuale?) deriva. Una lettura beffarda e amara di quello che siamo partendo da un fatto apparentemente innocuo e lontano.
Tanti gli spettacoli che hanno colpito per la loro qualità durante tutta la manifestazione, impossibile riferire di ognuno. Ma il vero “punto di fuga” è altrove. Al di là della ricca programmazione, durante le giornate “visionarie” è emersa un’originale riflessione sull’intelligenza collettiva e sulla capacità di una comunità di sentirsi e viversi come tale. Il percorso individuale verso lo spettatore emancipato si completa nell’assunzione di una responsabilità condivisa dell’evento teatrale. Vedere e sentire meglio sì, ma soprattutto “sentirsi meglio” grazie a questo contesto inclusivo.
Valentina Sorte