Danzatrice e coreografa napoletana classe 1987, Luna Cenere ha una formazione composita, votata alla ricerca e alla sperimentazione, che l’ha spinta nel corso degli anni a esplorare diverse realtà estere fino al ritorno in Italia dove collabora con Virgilio Sieni. Kokoroè il suo primo progetto indipendente che guarda al corpo come strumento per ripensare se stessi e il proprio percorso. Un lavoro che si inserisce perfettamente nella programmazione di Kilowatt Festival 2018, dedicata al tema Diversi perché umani. È proprio in questa occasione che l’abbiamo incontrata.

Formazione significa per forza “migrare”? Qual è stato il tuo percorso?
Se un artista vuole fare “ricerca” allora deve muoversi, spostarsi per continuare ad analizzare la realtà che lo circonda. Quando avevo vent’anni sapevo che avrei dovuto andare da qualche altra parte per intraprendere un percorso formativo differente rispetto a quello italiano. Sapevo che la mia ricerca doveva essere mirata, decisa, altrimenti mi sarei “dispersa”. Ho partecipato a lezioni e selezioni in diverse scuole e ho avuto la possibilità di scegliere in quale andare: la mia decisione è stata la Salzburg Experimental Academy of Dance, in Austria. Il lavoro sul corpo e anche quello di tipo drammaturgico che si faceva alla SEAD era aperto, molto più sperimentale rispetto alle scuole italiane: la SEAD era una fucina magmatica di materiali e possibilità senza ancora quell’identità precisa che ha  ora. Scelsi l’Austria non solo perché sapevo che avrei potuto fare un lavoro forte e riconfigurante sul mio corpo, ma perché intuivo mi avrebbe permesso di entrare in contatto con possibilità che altrove non avrei potuto nemmeno conoscere. Successivamente, visto che molti coreografi con cui collaboravo in Austria erano di base in Belgio, scelsi di trasferirmi lì, fino al momento in cui non ho iniziato a lavorare da freelance. È stata questa decisione che mi ha portato in un primo momento in Spagna e successivamente mi ha fatto tornare in Italia. L’esperienza spagnola è stata breve, ma fondante: ho lavorato nella compagnia Agitart di base a Figueres. L’approccio alla danza era ancora una volta differente rispetto a ciò che avevo sperimentato in precedenza e la composizione della compagnia era eterogenea, seppur con punti in comune. Ad esempio, nonostante la base di lavoro fosse la Spagna, i danzatori si erano formati per lo più in diverse scuole londinesi. In questo ambito tutto si mescola, creando substrato: un lavoro è figlio di un contesto determinato, ma chi partecipa alla realizzazione ha molteplici background e in questo modo si verifica un vero e proprio incontro tra le differenze, di approccio, tecnica, metodo. Un incontro che si compone anche dei luoghi che attraversi, per la tua formazione, in residenza, per uno spettacolo, ma anche di persone,  dei diversi pubblici con cui entri in contatto. La danza ti costringe a metterti in relazione con realtà altre: incontri sguardi, punti di vista, nazionalità, corpi, tradizioni anche opposti tra loro. La quotidianità stessa acquista un aspetto formativo e plasma l’artista forse più della tecnica che studia. Spostarsi, muoversi verso l’esterno, cambiare prospettiva non è in questo senso un tradimento delle proprie origini, ma l’avere il coraggio di fare un’esperienza che nella pratica di ogni giorno possa metterti alla prova.

Kokoro è uno spettacolo che fa del corpo un paesaggio, uno spazio in cui incontrarsi. Da quale urgenza nasce questo lavoro che affronta un tema non semplice come la riconfigurazione del corpo e della sua forma?
Nasce da molte urgenze. Finito gli studi ho iniziato a lavorare con coreografi portatori di poetiche altre rispetto alla mia, che di conseguenza mettevano in discussione la mia esperienza, il mio sguardo. Così ho iniziato a pormi delle domande innanzitutto rispetto a me come individuo e al contempo a me in relazione alla danza stessa. Ho iniziato a decostruire vissuto, educazione, esperienze e così ha iniziato a nascere Kokoro, un lavoro che non rispecchia la mia formazione, ma che si è sviluppato, al contrario, come messa in discussione di ciò che avevo visto e sperimentato. Ho sentito la necessità di confrontarmi con qualcosa che non conoscevo: era un partire da capo dopo aver scomposto il mio percorso umano e formativo.

Oltre alla destrutturazione del tuo percorso individuale, quali altre esperienze sono state determinanti per il tuo primo lavoro da coreografa e interprete?
Il lavoro si nutre di diverse suggestioni, spettacoli, immagini e immaginari. Fondamentale è stato per me l’incontro con la danzatrice svizzera Yasmine Hugonnet alla Biennale di Venezia del 2016: stavo già scrivendo il lavoro che sarebbe poi diventato Kokoro, quindi sapevo cosa stavo cercando ma ancora non lo avevo trovato del tutto. Conoscerla, incontrare la sua pratica, mi ha permesso di proseguire nella mia ricerca, mi ha ispirato dandomi la possibilità di fare mio un nuovo punto di vista. Con Kokoro non ero partita dall’idea di voler lavorare sul nudo, ma il mio amore per l’immagine – che sia fotografia o arte visiva non fa differenza – unito all’incontro con Yasmine mi hanno portato a intraprendere un lavoro sul nudo che andasse oltre il nudo stesso. È stata, ed è, una sperimentazione sulla dicotomia tra interno-esterno: un ripensare questo binomio per aprire una fessura in cui collocarsi, una nicchia che non stia agli estremi di queste polarità, ma nel mezzo. Il percorso che ho iniziato con questo spettacolo ha a che fare con la danza, ma anche con il mio approccio alla vita: sono fermamente convinta che la danza sia vita del quotidiano, sia riflessione sull’attualità.

In Kokoro viene mostrato un corpo immaginifico capace di farsi altro da sé, di assumere forme mutanti che impattano la realtà che lo circonda. È questo il nucleo dello spettacolo? E quali sono le specificità di quel corpo?
In quanto esseri umani abbiamo l’opportunità di rinascere ogni giorno: penso la possibilità del cambiamento sia sempre aperta e ciascuno possa, affrontando le sue sfide, trasformarsi e trasformare la realtà che lo circonda. Kokoro racconta di questo: un corpo che si trasforma e si accetta, in stretta relazione con la mente; un corpo che nasce, cresce e scopre un lato naturale, ma al contempo un lato oscuro, animale, parte fondamentale di noi esseri umani. Ad oggi credo sia necessario recuperare un contatto con la natura e per farlo dobbiamo passare da quel corpo animale che spesso neghiamo. Dimenticando l’abito che è sovrastruttura sociale e che nasconde e riconfigura il nostro corpo animale, si può iniziare una riflessione non solo sul corpo individuale in scena, ma sul corpo collettivo dell’essere umano. In Kokoro il corpo si fa così metafora: le forme che realizzo non sono sempre umane, ma sono sempre concrete. È molto interessante sapere che lo spettatore sta guardando il mio corpo, punto focale di tutto lo spettacolo, ma che in realtà non lo vede: il suo sguardo infatti, mediato dalla mente, gli permette di vedere altro. Le possibilità immaginative dell’essere umano sono meravigliose: mettendo in atto forme e gesti che ne modificano la percezione, si aprono possibilità di ripensamento. Cuore dello spettacolo è anche il percorso che quel corpo ha fatto per arrivare lì, tenendo sempre a mente che il corpo è prima di tutto un’identità privata. Il mio essere donna, l’essere nata in un luogo, avere un determinato retaggio culturale, un’età specifica sono tutti fattori che costruiscono una biografia leggibile sul mio corpo. Questo tema mi affascinava e ho sentito il desiderio di portarlo in scena attraverso un “corpo aperto”, in grado di lasciare la possibilità allo spettatore di rapportarsi empaticamente con esso prima ancora che con la persona reale. Lasciando la possibilità di immaginare, senza svelare subito il mio volto o la drammaturgia, tutti possono a loro modo entrare in relazione con ciò che vedono. Credo per un artista non ci sia gratificazione più grande di quando un lavoro può raggiungere tutto il pubblico, compresi i bambini. È fondamentale avvicinare arte e pubblico. Credo profondamente nell’incontro con gli spettatori e penso dovrebbe essere uno dei punti di interesse principali per gli artisti contemporanei.

Attenzione nei confronti del pubblico, del suo sguardo, oltre alla necessità di mettersi in discussione attraverso un percorso di ricerca. Pensi sia questa la tua direzione?
Personalmente non avevo mai pensato di fare coreografia nella mia vita, solo in seguito ho iniziato a scoprire la necessità di creare, sperimentare e mettermi in gioco attraverso la danza, ponendomi domande sempre nuove. Allo stesso modo avvicinare il pubblico è diventata una necessità imprescindibile, come lo sono l’educazione e la formazione, a cui sono sempre stata portata, ma che non avrei mai pensato di concretizzare nel lavoro. Ogni volta che mi confronto, insegno e trasmetto, vivo la stessa emozione di quando interpreto sulla scena. È la possibilità di condividere pratiche e far nascere domande che mi spinge in questa direzione di formazione non solo tecnica, ma anche spettatoriale. Inoltre ho scoperto che, al di fuori di ogni egocentrismo, non c’è nulla di più bello dell’incontro con il pubblico, sia nel caso di qualcuno che ti ringrazia perché ha visto una cosa bella, o perché si è posto una domanda, o, ancora, perché si è emozionato di fronte al tuo lavoro.

A cura di Camilla Fava

foto di Andrea Macchia e Paolo Porto


Kokoro
coreografia di Luna Cenere
con Luna Cenere
musiche di Gerard Valverde
disegno luci di Gaetano Battista
Produzione Körper
Collaborazione alla produzione Virgilio Sieni/Centro Nazionale di produzione

Visto a Kilowatt Festival il 14 luglio 2018