Pochi giorni, ma intensi. Lungo la banchina nascosta delle Fondamenta Nuove, dal 22 al 26 ottobre 2010 Rodrigo Garcia ha tenuto il suo workshop con venti attori, indagando la relazione fra testo e oggetto, l’azione come prima interprete della traduzione del mondo, l’attore come primo motore dell’espressione artistica. Il suo teatro a margine, il teatro di ognuno dei partecipanti come fondamento dell’incontro, in cui scoprire i propri limiti e, là dove possibile, sconfiggerli e superarli. Questo, allora, il nostro incontro, in forma di intervista, con l’artista ispano-argentino.
Un laboratorio dal titolo El mal camino e una suggestione da un quadro di Bruegel: che idea c’è dietro l’incontro con questi giovani attori per la Biennale 2010?
L’idea principale era far sì che gli attori assumessero un certo tipo di responsabilità che normalmente non hanno. Di solito, quando si lavora ad un’opera teatrale, c’è una struttura abbastanza piramidale: gli autori del testo; il regista, coloro che lo mettono in scena, lo staff artistico. Sembra che agli ultimi posti ci siano gli attori che devono imparare il testo a memoria, ripeterlo sera dopo sera, seguendo le indicazioni del regista. A me sembra quasi una forma di schiavitù! (ride).
In questo workshop, dunque, l’idea di base è che ogni persona sia un individuo, un ente creativo, che abbia rapporto con la sua vitalità, e che non abbia paura di manifestare le proprie inquietudini, la fantasia, il proprio mondo portandolo oltre la semplice interpretazione.
Per fare questo, ho chiesto a ogni persona, prima di venire qui, seguendo una mia sollecitazione, motivazione data da me, di studiare un quadro di Bruegel: Il trionfo della morte che si trova nel Museo delle Belle Arti di Bruxelles. In quest’opera si vede un angelo caduto: è un’opera abbastanza onirica, stravagante, che fa pensare più a Bosch che non a Bruegel. Un quadro molto fantasioso, abbastanza strano. Quindi ho chiesto agli attori di scrivere un testo – cosa che normalmente non si chiede a un attore –; di realizzare una composizione musicale o sonora e di portare al workshop tutto il materiale sin dal primo giorno. Credo sia abbastanza chiaro che il cammino che intraprendo non è molto ortodosso: si lavora con l’attore come interprete, ma ciò cui aspiro è di arrivare a
conoscere l’universo personale di ogni individuo con cui ho a che fare. E sono rimasto gradevolmente sorpreso, perché ho trovato persone che scrivono cose molto carine, a volte proprio belle, ma spesso hanno paura, non azzardano a scrivere per pudore o perché pensano che la scrittura bisogna trattarla con molto rispetto. Inoltre, non so se alcuni già conoscessero la mia opera, il mio modo di lavorare però mi ha interessato molto vedere come in tanti abbiano preso il quadro di Bruegel come un “pretesto”, per parlare di cose proprie, personali; non hanno fatto una semplice descrizione del quadro ma sono riusciti a trovarvi il modo di parlare di sé. Bene, tutto questo mi è molto piaciuto. Così come l’impatto con l’aspetto musicale e sonoro che gli attori hanno avuto. Abbiamo trascorso il primo giorno ascoltando i testi scritti da ognuno, vedendo materiale. Poi, a partire dal secondo giorno, siamo stati più “sciolti”, lavorando sulla scena e ci siamo resi conto che ogni persona, poco a poco, assumeva la responsabilità di fare la propria piccola creazione e in maniera del tutto naturale. Gli attori hanno iniziato a formare legami, piccoli gruppi, connessioni tra persone: per fare lavori in gruppi di tre, di quattro. È stato un processo dinamico, nato in maniera naturale, dal momento che non sono certo stato io a chiedere: «Facciamo gruppi di lavoro! Tu con lui, lui con l’altro!». Gli incontri sono
stati spontanei: sono stati loro a stabilire legami naturalmente.
Quanto e come è intervenuto in questi giorni nel lavoro con gli attori?
Le proposte sono molto fragili, io non posso intervenire tutto il tempo con le mie opinioni: l’intervento è sempre e solo un mio punto di vista. Ciascuno lavora con il proprio stile, con il proprio modo e il mio modo di lavorare sarà sempre differente da quello di un’altra persona. Ho dichiarato, così, fin dall’inizio che avremmo lavorato sulle visioni degli attori, non sulle mie. E questo, credo, ha avuto i suoi frutti.
Si è divertito a fare questo workshop?
Sì, anche se normalmente non mi piace farne: non ho una vocazione pedagogica e non ho grande comunicazione con le persone. Sono molto solitario, ho pochi amici e persone vicine, incontrare molta gente per me è destabilizzante. Questa volta invece mi ha conquistato la forza di chi ha avuto la capacità di sorprendermi con la sua creazione.
Oltre al riferimento pittorico di Bruegel, sappiamo che in questi giorni ha cercato di vedere un quadro a Venezia: di cosa si tratta?
Volevo vedere una Pietà di Bellini, alla Galleria dell’Accademia. Ma quel che mi interessa di più è scoprire pittori che non conosco, pittori non così noti che ugualmente stimolano la mia attenzione. Stavolta però non sono riuscito ad entrare per la fila molto, troppo, lunga…
Nell’incontro con il pubblico, in cui ha raccontato la sua vita per immagini fotografiche, e ha mostrato una pittura classica a conclusione del percorso. Ecco allora: quanto la pittura entra nel suo immaginario e lì si trasforma?
Penso che siano materiali che non posso trasporre direttamente in scena: non porto nei miei spettacoli le cose che mi piacciono del quadro. Credo semplicemente si tratti di emozioni che si vanno sedimentando, passano attraverso di me e si fermano: quando poi vado a comporre uno spettacolo immagino escano fuori ma io non ne sono cosciente. Soltanto, vado a cercare nutrimento personale che diventa creazione, ma allo
stesso modo posso aver bisogno di vedere una partita di calcio…
Può dunque definire l’immagine? Cos’è per lei?
È strano, perché io non ho mai pensato di costruire un’immagine. Vedo tanti spettacoli di registi che si preoccupano molto di costruire uno spazio, un vestiario, ad esempio Romeo Castellucci che lo fa in maniera straordinaria. Per me è tutto l’opposto, le immagini escono casualmente: comincio a lavorare con gli attori, con il loro corpo, con la materia che sta sul palco, a poco a poco si va così costruendo un paesaggio visuale, ma mai a priori.
Sfatiamo un tabù: lei hai ricevuto molte critiche per l’uso in scena degli animali, di cui alcuni denunciano la violenza. Qual è dunque, una volta per tutte, la sua posizione a riguardo?
Se ho necessità di avere gli animali come materia per la mia costruzione poetica, devo avere la libertà di utilizzarli. Ma la gente si irrita: questi momenti di tensione sul palco sono totalmente fittizi e generano però nel pubblico l’idea di verità. Il pubblico vede cose che non ci sono. Ad esempio in After sun, un mio
spettacolo, c’era un attore che ballava tenendo due conigli: la messa in scena dava un senso fortissimo di violenza ma lui sapeva perfettamente come prenderli. Io, semplicemente, gli ho messo una maschera di lotta libera messicana, ho lavorato con le luci e la musica per dare l’idea di violenza e questo ha creato forte irritazione: ma noi avevamo un controllo totale sulla situazione, pur dando idea di un mancato equilibrio. Tutti hanno pensato al male che potevamo fare all’animale o che potesse essere drogato: pensavano che il coniglio non fosse libero ma in realtà io dico che l’unico momento di libertà del coniglio, costretto sempre in gabbia, era proprio quando si trovava nel mio spettacolo!
Altrettanto nervosismo ha suscitato il caso famoso dell’astice in Accidens- Matar para comer…
Ecco, in quel caso l’attore ammazzava e cuoceva l’astice, poi lo mangiava. Tutto esattamente come quando vai al ristorante. Perché in scena è uno scandalo? Attorno a questa azione che si fa ogni giorno al ristorante, ho creato un universo di tensione. Se l’avessi fatto senza far ascoltare il battito del cuore amplificato con un piccolo microfono, ci sarebbe stata differenza rispetto al trattamento del ristorante? Era un
momento molto forte: ma è qualcosa di diverso anche soltanto dalla pesca?
Questo è quel che in Italia chiamiamo “ipocrisia”: chi non partecipa alla violenza crede di esserne immune o non colpevole, in realtà nella nostra vita quotidiana noi commettiamo violenze immani senza rendercene conto. Ma se non si vede è come non commetterla…
Ma certo, noi apparteniamo ad una società che censura.
Pensa che il suo teatro sia politico?
Sì, è inevitabile. Sono cosciente di fare teatro perché vivo nella società e ho fatto spettacoli esplicitamente politici. Ora sono in un momento in cui faccio opere più astratte ma ciò non vuol dire che non sia politico: so di vivere in una società che ha bisogno di poesia e questo è un atto politico. Con l’astrazione, cui molti non sono abituati, io posso allargare la percezione della gente portandola a un livello immaginifico più alto, facendo scoprire cose che non conoscevano: anche questo è un atto politico.
Trasformazione delle persone, attraverso l’opera…
Certo, il teatro non può avere un effetto diretto sulla società, sarebbe impossibile, ma può di certo influire alla trasformazione di alcuni individui. Questo è quel che chiamiamo “esperienza estetica” ed è quello che migliora le persone, apre l’universo.
Intervista a cura di Simone Nebbia, www.teatrocritica.net