Uno schermo campeggia di fronte agli occhi degli spettatori, a renderli testimoni di due riti di rigenerazione, due piccoli cerimoniali preparatori al sopraggiungere della primavera: la composizione di un mazzo di mammole – i fiori viola che con il loro colore simboleggiano in Sardegna l’unione tra il corpo e lo spirito – e la tosatura di una pecora – procedura indispensabile durante la stagione primaverile per facilitare la nascita degli agnelli. Ma lo schermo si rivela ben presto barriera momentanea tra il pubblico e lo spettacolo: al suo scomparire, ecco aprirsi alla vista i corpi di ventidue danzatori, colti in una sorta di training, una preparazione fisica per un evento che non farà mai capolino in scena, e che forse nemmeno esiste, almeno non nel mondo che conosciamo. Al centro della scena un danzatore si muove senza posa facendo roteare attorno ai fianchi un hula hoop, mentre, accanto a lui, una danzatrice, ruotando sulle punte, tiene in mano una palla. Un’immagine che trasmette un senso di profonda unità e ciclicità e che sembra un diretto richiamo alla relazione tra terra e sole. Attorno stanno gli altri venti danzatori, incarnazione delle quattro stagioni, intenti nel riscaldamento.
Nella sua semplicità, è una costruzione di corpi che proietta lo spettatore in una dimensione primordiale, lontana dalla tecnica e dalla dimensione performativa, ma profondamente aderente a un senso di comunità e unione. I danzatori passano poi a una fase successiva del loro riscaldamento: disegnano insistentemente sulla scena alcuni cerchi, a ribadire la natura profondamente ciclica delle cose. Una danza elementare in cui mentre i giovanissimi danzatori ripetono movenze semplici a colpire davvero sono i loro occhi, dove si legge un crescente coinvolgimento emotivo, al punto da potervi scorgere tutta la forza ancestrale del movimento e della natura. Ed è forse in questo scavo interiore che emerge il collegamento a «Le Sacre du printemps» di Stravinskij e a cui L.S.D.P. si ispira apertamente: si ritrova quella “puerile barbarie” – così venne additata l’opera al suo debutto – capace di suscitare non poco scalpore non solo per l’innovatività della composizione (musicale e coreografica) ma soprattutto per la sua estrema semplicità. Del resto, per citare Philip Roth, «la semplicità non è mai così semplice».
Agnese Di Girolamo
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