In un salotto polveroso e antiquato una donna riceve la visita dei genitori… defunti. Un grottesco prologo, di amletica memoria, dà il via all’ultimo capitolo della “Trilogia sulla fine del mondo” della Piccola Compagnia Dammacco. Una donna felicemente nubile, di un’età indefinita intorno ai 50, gonna scura sotto al ginocchio, capelli castamente raccolti, diventerà (contro il suo volere) madre: dovrà infatti prendersi cura del figlio della sorella, improvvisamente deceduta. Portavoce dell’infausta annunciazione è il padre della donna, che non manca di rimproverare alla figlia di essere stata incapace di creare una propria discendenza. Ma ora è la sua occasione. In un mondo solo a un primo sguardo identico al nostro, la zia accoglie in casa l’estraneo nipote.

Questi i preamboli da cui prende il via una drammaturgia che l’autore e regista Mariano Dammacco dissemina di apparenze ingannevoli, attraverso minuti riferimenti che traslano, in modo quasi impercettibile, il senso letterale della scena su un piano altro. Tanto che non ci stupiamo di trovarci in una distopia del nostro contemporaneo, dove è la giuria del web ad accordare, in una gara d’appalto, l’affidamento di un figlio e dove i professori vengono pubblicamente puniti “a suon di scudisciate”. Anche il cupo appartamento della donna, soltanto nelle sembianze uno spazio reale, sembra evocare piuttosto un luogo della mente, abitato da figure umanoidi (le sculture in ferro ideate dalla scenografa Stella Monesi), metafore di fantasmi e ricordi che dopo anni di solitudine si confondono tra i mobili.

In tale contesto il “giovane uomo” non compare mai, ma vive nei racconti della zia, acuendo la sensazione di aver a che fare più con un essere esotico che con un ragazzo: un alieno impermeabile a qualsiasi insegnamento, che parla poco e solo per comunicare elementari concetti, espressi con verbi all’infinito, “io volere essere felice”.  Il pubblico segue la vicenda dei due congiunti dalla sola prospettiva della donna, la bravissima Serena Balivo che, con tono misurato e straniante, a tratti quasi alienato, accorda in modo fluido i passaggi di registro del testo, sottolineandone delicatamente le sfumature e i nodi più ambigui. In flusso di coscienza (o meglio, di racconto) la drammaturgia passa agilmente dall’ironia all’inquietudine, dall’amarezza alla poesia e, proprio laddove spinge sulle trovate più surreali, riesce a sottolineare al meglio le nostre “diseducazioni” contemporanee e quotidiane. L’incomunicabilità tra i due mondi, nel corso dello spettacolo, assume infatti toni sempre più paradossali: quando, ad esempio, l’ossessione per i videogiochi e per qualsiasi forma di immagine su schermo si insinua anche nella vita emotiva del giovane uomo che finalmente si innamora. Una gioia per qualsiasi genitore, salvo poi scoprire che l’oggetto (letteralmente!) del desiderio del ragazzo non è altro che un’estrema ed esilarante manifestazione del suo disagio.

Cosa resta dunque dei tentativi pedagogici della zia? Forse il risultato più evidente di questa “buona educazione” ricade proprio sulla donna che, tra una riunione notturna di famiglia e l’altra, risveglia sentimenti inariditi e ricordi assopiti, come quello della parmigiana di melanzane di quando era bambina. Attorno al recupero di un’identità dimenticata, si gioca così la sola occasione di dare continuità a una discendenza che, seppur viva dal punto di vista biologico, senza il tramite del rapporto umano sembra destinata inevitabilmente a interrompersi.

Camilla Lietti

La buona educazione
di Mariano Dammacco
regia Mariano Dammacco
con Serena Balivo
spazio scenico Mariano Dammacco e Stella Monesi
produzione Piccola Compagnia Dammacco / Teatro di Dioniso

30 maggio al festival Primavera dei Teatri, Castrovillari
9-10 giugno al Festival delle Colline Torinesi, Torino
12-17 giugno al Teatro Franco Parenti, Milano