È buio sulla scena del Piccolo Teatro Grassi. Buio alternato a luce accecante: quattordici cellulari, con le torce accese e puntate sul pubblico, prefigurano l’incomprensibile accadimento che la compagnia Bellini Teatro Factory si appresta a raccontare. Cieco è l’agire di un uomo, Anders Breivik, autore della strage di Utoya; destinato a fallire è il tentativo di metterne in luce i moventi riposti. Perché stavolta l’etichetta di psicopatico non basta. Allora, sul palco, ci si chiede come Breivik, dichiarato dalla legge nel pieno delle sue facoltà, abbia potuto compiere un’atrocità simile.

L’interrogativo è posto attraverso un espediente metateatrale fin troppo tipico: l’azione si svolge in sala prove, dove una classe di recitazione sta cercando di allestire uno spettacolo sull’assassino. Ma le situazioni indagate sono inedite, tanto che poco si parla dell’attentatore in sé, e presto l’attenzione è posta sugli attori che, oltre a Breivik, interpretano altri personaggi: tra gli altri, i membri della Corte d’Appello che dovrà giudicarlo e sua madre.

Francesco Ferrara, drammaturgo de La classe, offre così al pubblico molte ipotesi sui meccanismi profondi della vicenda: a essere messa in risalto è così l’interpretazione di ogni attore, non nel senso di prova recitativa, bensì di vera e propria opera ermeneutica, cucita addosso alle varie personalità. Per uno di loro (Manuel Severino) la strage è soltanto un’esecuzione, priva di qualsiasi connotazione. Per un’altra (Claudia D’Avanzo) è un’operazione ironicamente paragonata all’eliminazione dei germi durante le pulizie di casa condotte da sua madre. Per Michele Ferrantino (il presunto stragista all’interno della stessa classe), l’attentato è il violento delirio di un folle. Gli attori, pur conservando una realistica caratterizzazione individuale, tale da portare lo spettatore a confondere le loro parole e i loro atteggiamenti con quelli dei reali allievi dell’accademia, sono allo stesso tempo personaggi, costruiti attraverso tratti ben definiti e un repertorio fisso di parole, gesti e frasi rituali: così Severino continua a citare “testualmente” Wikipedia.

Per dare risalto ai singoli corpi, questi vengono inseriti in un apparato scenografico semplice ed essenziale: sedie e abiti sono ordinari, un finto fucile fa talvolta capolino. Le emozioni vere si giocano su ben altro piano, quello delle luci e delle musiche, che rendono suggestive le variazioni sul tema di una sequenza continuamente riproposta: l’attentato. Il disegno luci ripete l’iniziale modulo buio-luce, ma con una progressione stringente di drammaticità la cui acme viene raggiunta quando il fucile, al cui interno è montata una torcia, si accende nel buio centrando il volto di ogni vittima con un fascio luminoso che ne esaspera l’espressione; oppure quando i cellulari diventano un mezzo illuminotecnico che rischiara l’inquietante sorriso di Breivik fino a renderlo di un bianco accecante, mentre la sua enorme ombra si staglia sul fondale. Allo stesso modo, anche la colonna sonora si fa portatrice di senso: se, in uno dei primi tentativi di messinscena dell’attentato, essa era pacata, slegata dal contesto, classica, in seguito diventa neomelodica, lasciando spazio alla proposta interpretativa di Ferrantino, poi metal, nel tentativo di esprimere come Breivik ha vissuto l’attentato secondo le reali ricostruzioni fatte dagli inquirenti, e drammatica, in base al punto di vista delle vittime. Ed è proprio spostando l’attenzione sulle vittime che La classe sembra trovare la chiave di lettura più plausibile per rappresentare i fatti. L’intento non è più avvicinare a sé Breivik, snaturandolo, ma interpretare persone comuni, facendo parlare il mostro solo al processo. Qui l’unica forma di espressione possibile diventa una retorica da villain, fredda e totalmente inumana nonostante le parole siano tratte dal verbale del processo. Un discorso la cui sgradevolezza e cattiveria si era trasmessa transitivamente al gruppo già dall’inizio delle prove, forse per la pervasività del tema trattato.

Ma la scelta del regista Gabriele Russo, piuttosto che di far esplodere questa aggressività, è di smorzarla, come del resto aveva fatto anche col dramma nei momenti più patetici. Ricorrenti battute, freddure, giochi di parole fanno sorridere lo spettatore nonostante la tragedia. Ci si chiede se non sia inappropriato usare simili toni nel trattare un tema così delicato. Ma forse questo trascorrere sulla superficie delle cose, lì dove sentiamo la tragedia lontana, difficile da metabolizzare e dolorosa da ponderare, rispecchia il modo in cui tendiamo tutti, oggi, ad affacciarci a simili notizie o ricordi.

Caterina Brunelli e Lidia Melengoni

 

La classe. Ritratto di uno di noi
di Francesco Ferrara
regia Gabriele Russo
con Luigi Adimari, Chiara Celotto, Rosita Chiodero, Salvatore Cutrì, Claudia D’Avanzo, Maria Francesca Duilio, Michele Ferrantino, Eleonora Longobardi, Luigi Leone, Andrea Liotti, Simone Mazzella, Salvatore Nicolella, Manuel Severino, Arianna Sorrentino costumi Chiara Aversano
produzione Fondazione Teatro di Napoli – Teatro Bellini

Visto al Piccolo Teatro Grassi in occasione di Tramedautore


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Trame d’inchiostro