Elettricità.
È quella scossa che va da un corpo a un altro, quella fiammata dell’anima che aggrega e disunisce, anche nello stesso tempo; ecco perché se ne avverte così tanto il segno, nel giorno di chiusura di una creazione brulicante, perché il senso è proprio negli elementi che fanno cortocircuito: qualcosa finisce, si avvia a concludersi, la stessa cosa inizia una nuova vita, fuori dal bozzolo che l’ha contenuta, per tutto quello che ne verrà. Questa è una nascita. Questa è la sensazione che affonda nella sala del Fondamenta Nuove, questo è anche in me, che li guardo insieme nascere e morire. La sola definizione che riconosco al teatro.

Tra di loro sono diversi, i desideri e le aperture alla bellezza.

Alessandra S è una scheggia impazzita, se ne sta sul palco con una naturalezza davvero impressionante, spicca il volo ogni volta che ci va, anche in gruppo mi accorgo che guarderei soltanto lei, tanta forza si porta sulla scena. Con lei tanti altri, hanno sentito in questo laboratorio il loro corpo reagire a stimoli che si davano soli, che Garcia ha soltanto innescato con la mera presenza, uno stimolo muto il suo, poco incline alla compromissione e al consiglio, di più a far cadere l’artista che ha di fronte nella sua necessità dell’azione, far sì che sia intimo e personale accorgersi del confine fra ciò che dall’anima emerge e ciò che invece è nella sfera della gratuità. Vincenza compone una scena di mille segni, di simboli che trovo di una eccessiva e furente occupazione dello spazio: sta iniziando però da qui la strada che la porterà a togliere chissà quanto, e garantirsi magari quell’unico segno, il solo che davvero moltiplichi i significati perché, come dice Garcia: «non si può scrivere un poema con tutte le parole del dizionario».

Caterina ha una bellezza scenica che mi colpisce sempre, già la conoscevo, ha un segno fortissimo abbastanza cosciente: il suo percorso avrà un grosso giovamento.

Sono tanti, questi ragazzi. In ognuno di loro ho trovato un sorriso e una voglia estrema di capire perché si trovano qui: Giulia me l’ha chiesto, io le ho risposto che era qui perché lei qui è sempre stata, «non te ne accorgi?» le ho detto.

Sara se ne torna invece a Bruxelles, è rimasta in Italia per capire quanto la scena sia il luogo dove gettare l’ombra che le tormenta alcuni nodi che si porta. C’è un’altra via al teatro, le chiederei?

Anna ha già chiara in mente la possibilità autoriale che c’è dietro il suo lavoro d’attrice, in scena porta qualcosa di sé che sta iniziando a rendere universale, mai dimenticandosi che è lei, in quello spazio, in quella storia. Elena mi sembra fra i più coscienti delle possibilità, il suo lavoro è forse tra quelli che più mi ha colpito, per l’opportunità critica che spero continuerà a indagare. Francesco è invece un danzatore con un percorso già avviato, è qui per mettersi in discussione e l’ha fatto con estrema diligenza, la sua forza: l’equilibrio. E poi Celso, lo spagnolo di Valencia, che non ha costruito su di sé più di quanto s’è dato ad altri: la formula di laboratorio per lui è stata la conoscenza, la compresenza di un gruppo. Invece, che sono qui anche per incagliare strade che credevano possibili me lo mostra Alessia M: la sua direzione che portava con sé è un’indagine da fare di nuovo, una nuova germinazione su un campo più fertile. Poi Chiara B, che ha scritto un testo straordinario ed è tra i pochi ad ascoltare veramente cosa accade in scena e a rispondere allo stimolo con l’azione: questo, non ho timore a dirlo, non ha altro nome che talento. L’altra, Chiara C, la porterei come secondo testimone per spiegare cosa è stato questo laboratorio, più che da lei in scena, credo abbia tratto dal lavoro sugli altri. Ma sono tanti, tantissimi: non basta la mia penna a dire dell’energia elettrica di Valeria, gli occhi intensi e i tanti dubbi di Alessandra P, la silenziosa vitalità di Odette, la disponibilità e la voglia di costruirsi di Enrico, la guida e il sorriso di Giuseppe, la condiscendenza vitale alle idee di Alessia R.

In ultimo, Anna Gaia: ho bisogno di lei, per dire con uno il lavoro che sarebbe di tutti. Aveva idea di mettersi in bocca denti da vampiro, andare in scena e recitare il suo pezzo: è entrata vestita di un reggiseno e gonnellina, e tre cappotti metaforici sulla sua espressività; quando Garcia le ha consigliato di spogliarsi è stata male – non è abituata m’ha poi detto – ma da lì in poi ha iniziato a ballare con i lupi e i vampiri, non era più solo nuda, quando è uscita non aveva più nemmeno la pelle. A questo fine, l’intero fulcro della creazione.

Io, infine, il testimone.

Mi restano mille immagini, la mia compromissione eccedente, il mio vieto soggettivismo che ho sentito apprezzare lungo l’intero arco di questo incontro intenso, perché l’incontro è stato anche con me e per me: quanti mi hanno chiesto, in questi giorni, di restare a guardarli, di parlare con loro, di confrontarsi su temi e grumi artistici, quanti di loro hanno ritrovato e desiderato quella funzione dispersa del critico, quel fantasma irretito dai linguaggi e dalla bellezza, che cerca di sé dentro i meandri dell’arte: per questo sono io a dire grazie, a loro, di avermi accettato disciolto, nella loro densa vitalità.

E in ultimo, Rodrigo Garcia.

Mi restano i dubbi su cosa sia la maestria, impossibili da fugare con un non-maestro che fugge dalla definizione fin dagli esordi; uno che non è stato regista ma guida laterale, che non ha stabilito se non connessioni empatiche immediate e che quindi per alcuni è stato infruttuoso; un anarchico che ama la struttura, un poeta della scena che ama Dostoevskij: ecco, potrei dire solo della sua contraddizione, alla fine di tutto: un fingitore del contesto intellettuale che della fiction conosce i canoni e li usa a fini espressivi, distorcendoli o solo rappresentandoli. È questa, mi dico infine, la sua forza, la sua paradossale coerenza che è, forse, più onesta dell’onestà. Attraverso la strada giusta, far passare i sentimenti contrastati e complessi del reale, di quel che non può essere mai altro, che el mal camino.

Simone Nebbia

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