Lo spazio del Lavoratorio si è trasformato, al termine della versione natalizia di Cuoro, in luogo di incontro e scambio tra il pubblico e Gioia Salvatori, attrice e autrice. Condotta da Alessandro Iachino e Virginia Magnaghi, la conversazione è stata l’occasione di approfondire ciò che ispira e influenza il lavoro di Salvatori, le modalità che lo caratterizzano e come tradizione e trasmissione si intrecciano con il suo percorso artistico.    

Quella appena andata in scena è solo una delle molteplici versioni di Cuoro, un progetto che negli anni ha assunto una varietà di formati. Come nasce Cuoro e come si è sviluppato nel tempo?

Cuoro è nato dieci anni fa come un blog: il suo nome è una conseguenza del fatto che per me “cuore” è una parola impronunciabile, perché estremamente stratificata, troppo seria. Ho scelto allora “Cuoro”: un refuso, ma anche una parola portatrice, in quanto versione errata di “cuore”, di un significato imprevisto. “Errore” ha infatti in sé la matrice del verbo “errare” e capita spesso in effetti, quando si erra, di commettere degli sbagli. Questi sbagli però possono essere occasioni per lo sviluppo di grandi idee. Soprattutto, ho scelto “Cuoro” perché mi sembrava semplicemente meno controllato. La mia scrittura ha una forte tendenza all’anacoluto, cioè allo sbaglio linguistico, voluto e ricercato. Da blog poi Cuoro è diventato uno spettacolo; a ogni modo sia sul web che sul palco affronta più argomenti e si rivolge a più persone: negli anni sono maturate varie versioni, a seconda di ciò che in quel momento costituiva l’oggetto principale della mia ricerca. Una costante, tuttavia, è l’indagine sulle figure femminili, un tentativo di comprendere come possa essere una donna che voglia affrancarsi dall’immagine tradizionale alla quale ci costringe, da sempre, la letteratura. Non sono mai riuscita a identificarmi con le eroine dei romanzi: da qui è nato il desiderio di scoprire i motivi della natura così “rotta” di queste donne, al quale è seguita la presa di coscienza che questo accade perché sono scritte da uomini.

Cuoro costituisce un felice unicum: quindicimila follower sono un seguito inaspettato sul web per un’attrice di teatro. Come è intervenuta la tua esperienza come content creator sulla tua scrittura?

Io mi sono sempre comportata come la maglieria veneta. Mi spiego meglio: la maglieria, a differenza della grande distribuzione – che compra filati di bassa qualità per vendere prodotti a prezzi contenuti – mira a produrre oggetti di valore. Nel mio percorso di scrittura e recitazione ho cercato di seguire una filosofia analoga. Innanzitutto, ho raggiunto quindicimila follower in dieci anni. Non si è trattato quindi di una crescita esponenziale, ma di un aumento graduale. La crescita lenta mi ha così dato modo di avere una maggiore libertà, o meglio la libertà di non essere una content creator, di non dover portare avanti una continua spettacolarizzazione del sé. Questo, però, ha fatto sì che si creasse un pubblico di affezionati, disposti ad accettare i contenuti che realizzo, pur non essendo continuativi. Non voglio sentirmi un juke-box e non mi piace dover esprimere un’opinione su ogni cosa: un’opinione è qualcosa che si pondera, che ha dunque un peso e che necessita tempo. Io non ne ho a disposizione a sufficienza per formarmi un’opinione su ogni argomento, e non ritengo sia mio compito. Detesto l’idea di dovermi piegare a una forma di intrattenimento continuo: un artista fa quello che fa quando se la sente. Seguire questa linea ha portato a una fidelizzazione del pubblico, consapevole del fatto che non avrà da me una pubblicazione costante di contenuti, ma anche della qualità che questi avranno. Una poesia scritta bene, con rigore; un contenuto bizzarro, una riflessione antipatica, un “concettino” filosofico. Le persone non sono stupide, il popolo non è ottuso, per cui non è obbligatorio proporre al pubblico contenuti semplici perché li possa capire: è però necessario affinare la propria capacità comunicativa, affinché, anche se la proposta è stratificata e alta, il destinatario possa comprenderla. Inoltre rifiuto la ricerca della comicità nella vita di tutti i giorni. A me non interessa la quotidianità, la realtà. Sono la morte dell’arte. La vita reale va in qualche modo filtrata, formalizzata per risultare interessante. Devo fare in modo che il pubblico capisca la mia comicità, ma attraverso uno sforzo di decifrazione del mio linguaggio. Questo accomuna il mio lavoro con quello della maglieria veneta: per godere di un prodotto di qualità bisogna mettere da parte delle risorse. Questo sforzo del percorso per raggiungere qualcosa che desideri e che contiene un valore è un viaggio. C’è un piacere nell’andare verso le cose.

I titoli che hanno composto questa parte della stagione del Lavoratorio – Entertainment, Lei Lear – offrono una riflessione e una declinazione intorno all’intrattenimento, o – come ci hanno raccontato Chiara Fenizi e Julieta Marocco a margine di Lei Lear – al “trattenimento”. Come lavori per trattenere il tuo pubblico?

La forma di comicità su cui sento di essere più preparata è il varietà. È un genere che continua a essere per me di grande ispirazione; ne apprezzo in particolare la mescolanza di linguaggi: la prosa, la canzone, le coreografie, la poesia. Nella scrittura la mia prerogativa è la ritmica. Il comico si basa sulla musicalità, quindi, più che cercare di trattenere il pubblico, cerco di farmi seguire, sfruttando una ritmica serrata e scandita da variazioni continue. Il cambiamento di ritmo è un elemento fondamentale per produrre l’effetto comico. La variazione si può costruire secondo diverse regole: io cerco di lavorare sull’alternanza di pieno e vuoto. Un altro aspetto a cui faccio molta attenzione nella scrittura è l’ardimento: cerco di essere veloce, colta, in rima, complessa. Noi artisti dobbiamo fare qualcosa di elevato, dobbiamo essere acrobati. Il nostro obiettivo è la ricerca delle emozioni e per essa si rende necessario alzare il tiro.
A influenzare molto il mio lavoro di scrittura è anche la convinzione personale che l’intelligenza sia sopravvalutata. Quello attuale è un mondo di arguti, ma il desiderio di manifestare il proprio acume porta ad adottare un noiosissimo mentalismo. Io invece sono per la libertà dell’ebetismo e della cretineria. Nei miei spettacoli cerco di creare momenti di sospensione, clowneschi: in quell’assenza di logica e di raziocinio si apre uno spazio per la vita. Il costringersi a essere sempre pronti, performanti, simpatici, è per me una condizione terribile. Tanto più che la simpatia è la comicità depurata dalla cattiveria: invece la comicità necessita di una componente di livore e rabbia. È una forma anche politicamente aggressiva. Lo sdoganamento della simpatia, che passa attraverso i social, è depotenziante, non è erotico, mentre il teatro è un ambito fortemente erotico, nel senso greco del termine: è una tensione, ci smuove, mette in movimento il corpo. Quello del teatro è un mestiere antico, artigianale, in cui è assolutamente fondamentale esserci con il corpo. È attraverso di esso che la parola deve essere incarnata.

Cuoro è un bel modo per fare pace con le nostre fragilità, i nostri aspetti più ridicoli. Cosa possiamo fare per essere un po’ Cuoro di noi stessi nella vita di tutti i giorni?

Il riferimento alle fragilità mi piace fino a un certo punto. Partiamo da un presupposto: la vita è faticosa. È impossibile essere sempre forti, stare sempre bene, ma l’arte, per la mia esperienza, ha un forte effetto consolatorio. Il contatto con la bellezza può rendere più leggeri i periodi complicati dell’esistenza. Non è importante risolvere le difficoltà, quanto imparare ad attraversarle cercando di farsi del bene: una mostra, un libro, un film, dei rapporti soddisfacenti sono tutte cose che ci possono aiutare a vivere meglio. Il mio consiglio è quello di trovare una grande passione, perché sicuramente è un’enorme risorsa per rendere la vita più piacevole. Non credo, insomma, che il punto sia accogliere o eliminare le fragilità. 

Nella tua comicità sono ben visibili le tracce della tradizione di grandissime autrici del teatro italiano, da Anna Marchesini a Franca Valeri. Sono delle tue maestre? D’altra parte, sei tu stessa formatrice, come dimostrano i tuoi laboratori di scrittura comica. Come gestisci la trasmissione e cosa significa essere pedagoga della scrittura comica?

Ho studiato a lungo Franca Valeri: mi sono laureata con una tesi sul suo lavoro, ho analizzato i suoi copioni. E d’altra parte ho visto tanti spettacoli di Anna Marchesini. Le eredità di queste due grandi comiche sono però diverse. Valeri fa parlare le donne del Novecento, caratterizzate da una solitudine esistenziale che cercano di riempire straparlando. La solitudine dei suoi personaggi è ossessiva: sono donne nevrotiche, ma dotate di una forte comicità. Valeri fa da apripista nella rappresentazione di questo tipo di figure: il suo modo di recitare non è impostato e presenta una certa dose di malizia. Le sue protagoniste, inoltre, mettono in luce la libertà di essere cretini, pagliacci, cioè quella libertà di non essere performativi di cui parlavo prima. Il desiderio di risultare sempre abili, pronti, più bravi, fa perdere il gusto della vita, che è anche il gusto di non sapere, di essere indecisi, contraddittori. Marchesini era una virtuosa della mimesi e della vocalità. Appartiene quindi alla tradizione della commedia dell’arte, mentre il corpo di Valeri è più statico. Il livello parodistico di Marchesini è legato alla possibilità, per le sue personagge, di “mostrificarsi”: il mostro è ciò che si vuole rivelare, cioè quella parte del nostro animo portata alla luce ed esasperata fisicamente. Le donne di Marchesini sono tutte imprigionate, che nel momento in cui escono fuori appaiono mostruose. Marchesini aveva una tecnica incredibile e una straordinaria intelligenza, che le consentiva di avere anche una forte disinibizione di fronte agli aspetti mostruosi delle sue creature, a quegli elementi sovversivi di una personalità, sicuramente non eleganti ma straordinariamente comici. Questa è la tradizione femminile a cui mi ispiro.
Per quanto riguarda la trasmissione, credo implichi una grande responsabilità da parte di chi insegna: si deve accettare di “morire” di fronte alla nuova generazione. Dobbiamo passare degli strumenti, quella grammatica appresa negli anni. Da pedagoga io cerco di tramontare: di spendere tutto quello che ho da offrire e anche di aiutare le persone che ho davanti a tirare fuori quello che vedo in loro. Il maestro ha il compito di mettere in luce quello che non funziona e di agevolare la realizzazione di quello che è in nuce, e questo non perché l’insegnante sia il detentore assoluto del bene, ma perché ciò rende autonomo l’allievo, gli dà le gambe per uscire fuori e andare nel mondo.
Nei seminari provo a lavorare sull’imparare a sfruttare la malizia, i fastidi e sulla necessità di tirare fuori una voce più personale. È giusto, già alla mia età, cominciare a salutare il palcoscenico, anche dentro di sé; forse continuerò a recitare per tutta la vita, ma non posso fare la comica per altri vent’anni. La comicità necessita di un ardimento, di un rabbioso attaccamento alla vita che non sento di voler sostenere.

a cura di Serena Chiaramonte ed Emma Vanni


in copertina: foto ufficio stampa

CUORO NATALINO
di e con Gioia Salvatori

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2