coreografia e regia di Emio Greco e Pieter C. Scholten

visto all’Hangar Bicocca di Milano _ giovedì 23 giugno

Dopo la compagnia della Fortezza, ad approdare sotto le mistiche ombre delle torri di Kiefer è il coreografo espatriato Emio Greco, origini brindisine e curriculum europeo, per non dire mondiale, che gli ha permesso nel corso degli anni di entrare nell’olimpo della danza contemporanea.

Questa Commedia in forma di danza (delle anime prima che dei corpi) arriva all’Hangar come progetto site-specific, secondo le linee guida della direzione artistica di Chiara Bertola, che ha visto nell’evocativo spazio alla Bicocca il non luogo ideale per coltivare progetti e sperimentazioni ad hoc, trasformandolo in contenitore di esclusive per il panorama culturale milanese e non solo. Eventi unici parecchio gettonati, come dimostra il gran numero di spettatori accorsi giovedì 23 giugno: molti dei quali costretti a sedersi a terra, spesso con visuale limitata e lamentele dei vicini incluse. Anche questa volta si trattava di un debutto in prima mondiale, a firma di Greco e del collega di molti spettacoli, il regista Pieter Scholten, entrambi attivi ad Amsterdam con la compagnia Emio Greco | PC. Il lavoro sarà poi riproposto in una versione teatrale a settembre al festival Torinodanza.

Dopo Hell e Para | diso, il terzo capitolo dell’esplorazione dantesca attraverso il linguaggio della danza e del corpo ha portato Greco e Sholten a cambiare registro, virando decisi sull’ironia di un cabaret da quattro soldi, sulla tragicomicità di un circo di paese che vive di glorie passate e attende la fine. Siamo in un mercato di anime dove, per ogni giorno della settimana, si esibiscono sette ballerini (come i sette peccati capitali), più Greco, coreografo dall’occhio attento (a volte troppo attento, per fondersi davvero con il resto del gruppo), Caronte d’eccezione per la sua compagnia di anime perse.

Ed è così che, chiamati al loro assolo da un giostraio che li ammaestra come animali da esibizione, i ballerini battono le ginocchia sul pavimento, si rotolano a terra in mezzo alla polvere, rantolano e respirano forte, come a far sentire tutta la loro umanità che prima solo affiora e poi straborda dai corpi di angeli in movimento destinati a soccombere. In questo ballo di vita e morte, l’alfabeto è spesso enigmatico, estremo, virulento, per poi improvvisamente alleggerirsi, come un accento lieve e ironico sulla tragicità dell’esistenza. Impeccabile il contrappunto musicale, che va dal paradisiaco e insieme inquieto Bach fino al funk figlio dei fiori di Let the sun shining.

Come c’era da aspettarsi, non si tratta di una semplice illustrazione del poema dantesco. Dice Greco: «La mia è una lettura disinvolta e tragica dove entra in campo l’ironia per contrastare l’enfasi drammatica che creano i media». Una lettura dove tutto è pura sospensione, attesa e poi rincorsa, in una metafora dell’insaziabile desiderio dell’uomo di arrivare dove sa di non poter arrivare, per una danza fatta di fatta di fluidità e lentezza, di immobilità e impulso.

Ogni ballerino, nella sua foga, nella sua grandezza, nello sviluppo del movimento e spesso nella sua non compiutezza, ha lo spazio di un’apertura di sipario: è il tempo che a ciascuno è dato di vivere, l’occasione che non si deve mancare, la luce che ci illumina prima di ricadere nel buio e nella polvere da cui siamo venuti. Quando l’imbonitore dice stop, inutile disperarsi. È finita. Non ci sono più né peccatori né salvati. Resta l’uomo.

Francesca Gambarini