È il primo venerdì di dicembre, e Il Lavoratorio si chiude alle spalle le porte per cacciare via il vento che si infilerebbe nella stanza, soffiando via i segreti di Marta Cuscunà. Sono le 21, tra poco parteciperemo a Questo è un inizio, il «racconto dei primi passi dentro la storia a cui si ispirerà il mio prossimo spettacolo», usando le parole dell’artista, ma anche «un atto di fiducia verso il pubblico, invitato ad avere cura di questo racconto come se fosse una confidenza in cameretta». Entriamo in sala: parzialmente vuota, abitata da sporadiche voci fuori campo, è immersa in un brusio soffuso tra le pareti, che assorbono il disincanto delle conversazioni e degli incontri. A chiunque incuriosisce o intimorisce l’inaspettato, soprattutto quando è esplicito.
Arriva il momento, allora, di addentrarci nella cameretta di Marta. Ci dice che parlerà di illusionismo, di robotica e metaverso: chissà che forma dovremmo assumere, tutti, per entrare nel suo spazio ipnotico.
Stasera presenterai al Lavoratorio uno studio del tuo prossimo spettacolo, raccontando e donando al pubblico, in un atto di fiducia, le prime fasi di questo nuovo progetto. Come mai hai deciso di rivelare, in una restituzione così intima e protetta, i segreti di tutto un percorso?
È un formato che sperimento già da un po’ di tempo; trovo molto bello che il pubblico scopra tutto quello che dà densità allo spettacolo ma che, di solito, rimane nascosto, non riuscendo mai a emergere in un modo così chiaro e limpido. Noi lo chiamiamo making of. Restituirlo è quindi la possibilità di raccontare le diverse fonti da cui prenderà forma il mio lavoro, dando spazio a ciascuna di queste, approfondendo gli argomenti e facendo vedere anche tutte le strade che si abbandonano – o quelle che rimangono più a margine – durante lo spettacolo. In questo caso è la prima volta che condivido il percorso nonostante non ci sia ancora un budget per la produzione e quindi, davvero, non so quale sarà il punto di arrivo.
L’immagine che accompagna questa restituzione è un tuo ritratto fotografico, di Evelin Mazzaro, nel quale impugni una lente d’ingrandimento. Dove senti che stai ponendo la lente in questo momento?
Durante questa residenza ho contattato Francesca Della Monica per una questione precisa: volevo imparare le tecniche della ventriloquia. Quest’ultima ha a che fare con l’argomento che sto studiando e sicuramente quello che mi sembra interessante è che a seconda della lente che si usa si può avere un’idea diversa sullo stesso argomento. Per esempio, utilizzare la lente della disparità di genere permette di vedere una storia da un punto di vista che magari non è quello da cui è stata raccontata fino a quel momento. Nel mio caso, mostrare al pubblico il punto di vista con cui viene osservata la vicenda è sempre abbastanza esplicito, come nel caso del percorso sul femminismo: tutte queste lenti sono sempre dichiarate nel mio lavoro.
Nei tuoi spettacoli sei attrice, corpo, voce, performer, ma anche marionettista. Ci racconteresti la tua formazione, così varia?
Sicuramente della mia formazione hanno fatto parte tutte le tecniche tradizionali dei burattini, delle marionette e dei pupazzi che utilizzo a seconda dell’animazione; in altri casi, quando ci sono situazioni meno codificate e meno riconoscibili – e qui mi riferisco a “creature meccaniche”, come in Sorry, Boys, – gli oggetti meccanici che io e Paola Villani abbiamo iniziato a costruire non sono esattamente riconducibili a una tradizione pregressa del teatro di figura. Di conseguenza non c’è una formazione vera e propria a cui mi collego, quanto piuttosto una scoperta continua che faccio con Paola e Marco Rogante su come sviluppare una determinata tecnica di manipolazione e animazione in funzione del meccanismo e della meccanica degli oggetti.
Per quanto riguarda il teatro visuale, le regole d’oro di questo linguaggio le ho imparate grazie a Joan Baixas con cui mi sono formata. Per la drammaturgia è stato fondamentale José Sinisterra, anche se la mia non è una drammaturgia specificatamente per pupazzi o altre creature, ma è qualcosa che arriva ogni volta man mano, durante la creazione del lavoro. E in realtà non ho mai frequentato un corso di scrittura.
Sappiamo che non sei solita condurre dei workshop, anche se in questo caso hai parlato di un’occasione particolare. C’entra il tuo legame con lo spazio del Lavoratorio?
Non tengo spesso workshop; ne ho frequentati molti, con grandi maestri, e preferisco essere sempre allieva. Qui però mi sento in un luogo sicuro, dove mettere alla prova parti di me. Sono ancora all’inizio di questo percorso di condivisione di pratiche, ma sono anche certa che Andrea [Macaluso, ndr] prepara i partecipanti nel modo più giusto.
Quindi ti sei ispirata al luogo del Lavoratorio per l’idea della “confidenza in cameretta” o è un qualcosa di tuo?
L’idea del luogo sicuro è necessaria perché in questa fase di lavorazione si è molto vulnerabili. La strada non è perfettamente delineata, e c’è bisogno di un ambiente che non sia dispersivo o confuso, ma capace di proteggere uno spettacolo o un laboratorio. L’approccio, in questo caso, è decisamente più fragile.
Quando lavori sul progetto ti vengono prima in mente delle immagini o cerchi di scavare nell’argomento?
È un percorso che non ha delle fasi così drasticamente separate. Solitamente non ho un’immagine delineata, ma nel momento in cui una storia mi aggancia, dentro di me sorgono alcune visioni; non sono ben definite ma mi aprono degli immaginari. Dopodiché c’è una fase di approfondimento, di ricerca di altre fonti: il momento in cui la teoria deve essere trasformata in struttura scenica. Credo che la sezione delle visioni continui fino alla fine del processo: per il tipo di teatro che faccio la visionarietà è fondamentale. Il teatro visuale richiede che ogni storia trovi il proprio corrispettivo visivo: questo è l’approccio alla base di tutti i miei spettacoli.
La tecnologia potrebbe essere un’alternativa percorribile rispetto alla crisi del teatro dal vivo?
Fino ad ora ho sempre lavorato sulla parte artigianale, ovvero animando manualmente le creature meccaniche, ma c’è stata una proposta caduta dal cielo in modo inaspettato che ho deciso di raccogliere e che mi ha portato a sperimentare una strada che non avevo ancora intrapreso… L’idea del cyborg applicata al mio corpo di marionettista è leggermente impropria: qui tutto rimane meccanico, mentre del concetto di cyborg è parte integrante l’autoregolazione del sistema determinata dall’automazione robotica; nel mio caso invece il cyborg resta umano. Certamente però mi rifaccio al concetto di cyborg nel pensiero femminista di Donna Haraway; la mia ricerca ha a che fare sicuramente con l’ibridazione dell’umano con il tecnologico: meccanismi, cavi, joystick che diventano protesi delle mie mani per far sì che, attraverso questo sistema di cavi, un movimento diventi poi la vita di un corpo meccanico…
C’è un collegamento tra la marionetta che si fa tutt’uno con noi e la tecnologia che diventa una nostra estensione, facendosi corpo col nostro corpo?
Nel mio caso non è tanto il corpo della creatura che si sovrappone e unisce al corpo della marionettista: queste creature esistono perché il mio corpo non basta e devono essere diverse da me. Mi preme l’idea di dare al corpo parti che altrimenti non avrei mai e che sono diverse da me, che non sono umane e che non cercano di diventarlo. Mi viene in mente Emanuele Coccia, che ha analizzato quanto la nostra identità si allunghi coi mezzi tecnologici con i quali ci esprimiamo ed espandiamo la nostra esistenza.
E la voce in che rapporto sta con tutto questo? Pensando anche a Francesca come archeologa della voce, che tipo di lavoro avete fatto?
Avevo già lavorato con lei per Il canto della caduta. In quell’occasione abbiamo indagato la vocalità del corpo e i paesaggi sonori dello spettacolo, ma in con una forma completamente diversa rispetto al progetto di adesso, che è stato limitato alla tecnica. Non abbiamo mai utilizzato mezzi esterni alla voce: in un certo senso, mi sono esercitata sulle modificazioni «manuali» della voce.
In che modo la stanza può trovare estensione al di fuori della stanza?
Il tema della stanza o l’idea della residenza che avviene in una stanza ha molti legami con Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf: un nido dove raccogliersi e sviluppare una visione che non esiste ancora e che ha bisogno di essere protetta dalle interferenze. Il teatro ha bisogno di aprirsi, a un certo punto: si tratta di capire in quali momenti coinvolgere il pubblico, conoscere i luoghi in cui poter fare lavori di questo tipo. Lo spazio influenza sicuramente l’atteggiamento dello spettatore. Qui forse si ha la sensazione di essere testimone di qualcosa di intimo, di informe e fragile. L’idea che mi spinge è che la condivisione sia più utile di un segreto.
a cura di Sofia Mauro, Joana Preza e Isabella Quaia
in copertina: foto di Evelin Mazzaro
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica