Nonostante iniziali problemi di produzione e alcune polemiche sulla sua assenza dal cartellone della prossima stagione, La Cupa – fabbula di un omo che divinne un albero ha fatto il suo debutto al Teatro Stabile di Napoli conquistando sera dopo sera sia pubblico che critica. Sulle pagine de “La Lettura” Franco Cordelli lo pone addirittura nell’Olimpo del teatro napoletano, paragonandolo a capolavori senza tempo come Filomena Marturano e La Gatta Cenerentola. Un’inaugurazione più che promettente per Mimmo Borrelli che con questo spettacolo – di cui è drammaturgo, regista e attore – dà il via alla Trinità della Terra, allo “ svango”, lo svuotamento, il passaggio cioè dall’orizzontalità del liquido amniotico della precedente Trinità dell’Acqua, alla virile verticalità della terra perforata di questa nuova trilogia. Lasciati i lidi umidi della maternità, ora Borrelli utilizza la frangibilità della terra per scavare negli antri della paternità.

La Cupa infatti altro non è che una cava di tufo che viola la Terra, l’antro dell’Inferno; un luogo buio, insalubre, in cui negli anni sono state sotterrate scorie, segreti e illazioni. L’amore tra i giovani Massasciutto e Maria delle Papere è allora il pretesto narrativo per far emergere segreti familiari celati e “disossare” così il terreno, facendo prendere aria a tutto ciò che il tempo ha sepolto rendendolo arido e infecondo. Sono proprio i miasmi sprigionati da questo scavare a propagarsi e infettare l’innocente verginità di Maria delle Papere, cieca dalla nascita per mano della madre, e il suo amore salutifero per ‘Nzanamorte, colui che l’ha cresciuta come un fratello ma che si rivelerà presto esserne il padre. È così che nei venti “vanghi” che costituiscono i capitoli di scena, si sprofonda sempre più in verità taciute, genitorialità deviate, rifiuti tossici occultati.

La materia del testo è densa, fangosa, così come magmatica è la lingua di cui si compone: tremilacinquecento versi flegrei, misteriosi e quasi incomprensibili perfino a un orecchio non partenopeo. Una lingua del volgo, alta e bassa, poetica e triviale, che impasta origini greche, latine e sefardite. Una lingua sulfurea che diventa imprescindibile fattore connotativo e fa da contrappunto a tutto lo spettacolo, sciogliendosi a tratti in canti corali che richiamano le sonorità dei kacek indonesiani. Se infatti le vicende de La Cupa rimandano a uno spazio e un tempo specifici, dove emergono chiaramente i riferimenti alla toponimia e alla contemporaneità napoletane (dalle scorie nucleari ai traffici di donne dall’Est, sempre sotto l’ombra lunga della camorra), la capacità più evidente dello spettacolo è quella di farsi anche racconto universale. Un’impresa in cui giocano un ruolo fondamentale soprattutto le ambientazioni sonore e le musiche eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione: un “gamelan” indonesiano fatto di xilofoni, tamburi e gong che fa da perfetto telaio alle percussioni vocali così marcatamente locali e alle sonorità gutturali, onomatopeiche e bestiali degli interpreti. Attraverso questo filtro, la lingua, così carica di significato, viene desemantizzata dalla sua stessa musicalità per essere restituita allo spettatore sotto nuove sonorità.

Allo stesso modo, il sistema dei nomi dei personaggi rivela il costante equilibrio tra l’hic et nunc e il paradigma assoluto: Cenzina, madre di Massasciutto, ha in sé tutta la tragicità delle donne di Euripide e tocca gli archetipi mitologici della Madre resa crudele dal troppo amore filiale. Il marito, il terribile Scippasalute, responsabile della perdita della verginità della povera Maria, raccoglie tutto il male senza riscatto dei grandi romanzi russi e delle tragedie shakespeariane. Gli animali parlanti – ferini nelle fattezze ma profondamente umanizzati nei modi – richiamano con il loro antropomorfismo magico la prosa latina e tutto l’immaginario popolare in cui uomini e bestie varcano la soglia che li separa. Persino l’uso del corpo che Borrelli impartisce ai suoi personaggi richiama altre culture e, allontanandosi dalla ricerca estetica del teatro-danza contemporaneo, si avvale di coreografie più prossime alle arti marziali, a movimenti ‘primordiali’, senza assumere mai una connotazione precisa: non si tratta di danza pura ma di un muoversi attraverso un segno ritmico, in un teatro che, seppur musicato, rimane profondamente prosaico.

Ecco plasmata allora una comunità che pur conservando una potente e personalissima unicità (ben radicata nella cava di tufo della penisola flegrea in cui vive) contiene in sé tutta la storia del mondo. Un risultato complesso reso possibile anche grazie al gran lavoro degli interpreti in scena che, in un percorso lungo anni,  hanno modellato magistralmente sui propri corpi la materia narrativa. L’estrema formalizzazione drammaturgica de la Cupa ha richiesto infatti un lungo addestramento per sfuggire la finzione e mantenere una costante e piena verità emotiva. La carica istintuale, il guizzo irrazionale e creativo, sono stati fatti denotare prima della messa scena per il pubblico, nelle lunghe sedute di elaborazione quando la storia veniva liberata e lasciata agire senza essere ancora piegata al pensiero “intellettivo” del regista. Perché, come scrive Borrelli, “il pericolo va affrontato nelle prove, non durante le repliche”.

Michaela Molinari


La Cupa – fabbula di un omo che divinne un albero
versi, canti, drammaturgia e regia: Mimmo Borrelli
con Maurizio Azzurro, Dario Barbato, Mimmo Borrelli, Gaetano Colella, Veronica D’Elia, Renato De Simone, Gennaro Di Colandrea, Paolo Fabozzo, Marianna Fontana, Enzo Gaito, Geremia Longobardo, Stefano Miglio, Autilia Ranieri
scene: Luigi Ferrigno
costumi: Enzo Pirozzi
musiche, ambientazioni sonore composte ed eseguite dal vivo da Antonio Della Ragione
disegno luci: Cesare Accetta
produzione Teatro Stabile di Napoli – Teatro Nazionale

Visto al Teatro Stabile di Napoli_10 aprile-6maggio 2018