In occasione del secondo incontro della rassegna di danza contemporanea Invito di Sosta al Teatro Mecenate di Arezzo, il coreografo Roberto Castello ha riportato in scena In girum imus nocte et consumimur igni, nato in collaborazione con la sua associazione ALDES. Inserito in numerosi eventi in Italia e all’estero, il lavoro è frutto, come ci spiega il coreografo, di un percorso per alcuni versi privilegiato: l’assenza di un termine ultimo di consegna della creazione, di quella “data di scadenza” che spesso ostacola i processi creativi, ha permesso allo spettacolo di maturare e crescere nel tempo senza alcuna fretta o pressione, garantendo un dialogo produttivo tra gli artisti. È proprio a partire da In girum e dagli sconfinati orizzonti derivanti dalla sua visione che la conversazione telefonica con il coreografo ha preso forma.
Lei è autore di In girum in collaborazione con la sua compagnia ALDES. Come si è sviluppato il processo di creazione? Tra lei e gli interpreti è avvenuto uno scambio di idee o un confronto sulle tematiche e sul movimento?
In girum è nato un po’ da sé. Sicuramente il tempo avuto a disposizione ha fatto sì che le scelte coreografiche e registiche fossero frutto di un confronto critico con gli interpreti, coautori del lavoro a tutti gli effetti. Durante il periodo di creazione Stefano Questorio, Irene Russolilo e Ilenia Romano hanno ruotato, mentre Giselda Ranieri e Mariano Nieddu sono sempre stati presenti. Rispetto alle opinioni divergenti e non perfettamente collimanti tra i diversi interpreti, mio è stato il compito di prendere scelte e decisioni, oltre che offrire proposte sul lavoro. Quest’ultimo si è costruito a partire da semplici camminate di profilo, prive di qualsiasi mimesi del reale. Nonostante la sua semplicità, il gesto della camminata ha assunto man mano un significato sempre più ampio, legato anche a un’umanità che tende a salvaguardare sé stessa andando sempre avanti – basti pensare al fenomeno delle migrazioni e alle immagini che provenivano dalla cosiddetta rotta balcanica – ed è bastato poco per realizzare che questo costante andare avanti rappresentava anche la metafora del vivere collettivo. In seguito è nata la consapevolezza che tutto era legato alla dinamica del desiderio: si va avanti perché si desidera un bicchiere d’acqua, un pacchetto di sigarette o incontrare una persona, mangiare, passeggiare. Solo alla fine sono incappato nel palindromo che ha creato poi la cornice corretta dell’intero percorso che fino a quel momento non aveva un titolo, il che rendeva sicuramente il lavoro più debole.
È come se il titolo avesse incontrato la creazione e non viceversa.
Diciamo di sì, il titolo non ha sicuramente generato la creazione. Non ritengo comunque una forzatura dire che il palindromo in sé sia molto legato al meccanismo del desiderare: noi siamo spinti e bruciamo le nostre esistenze in una successione infinita di desideri. Si tratta inoltre di un titolo che già esisteva: in qualche modo anche nell’omonimo lavoro di Debord l’argomento affrontato era il desiderio, per cui la nostra operazione e quella di Debord, anche se sideralmente lontane, trovano nella tematica un unico punto in comune.
Debord afferma che questo presente senza via d’uscita e senza riposo può essere tradotto nel palindromo che è costruito come un labirinto da cui non si può uscire. In effetti anche nella sua creazione viene mostrata una situazione alienante, quasi una prigione in cui gli interpreti agiscono e cercano di interagire. Esiste secondo lei un tempo o uno spazio in cui è possibile evadere da questo contesto ossessivo ed estraniante?
Ciò che dici è assolutamente legittimo e lo riconosco. Il mio intento però non era esprimere un giudizio, bensì condividere una constatazione di fatto, una scoperta dal punto di vista dell’esperienza esistenziale: siamo parte di un meccanismo che Yuval Harari chiamerebbe “l’algoritmo di Dio”, una sorta di destino in cui il motore della natura e del nostro agire è il desiderio e non è triste constatare che sia così.
Certo, il colore che si intende attribuire a questa idea del desiderio varia da persona a persona, per cui risulta essere molto soggettivo.
Sì, forse il colore distopico dello spettacolo ne tende a risaltare l’aspetto depressivo, ma non era questo il mio intento. Anzi, a me piace che il lavoro abbia anche degli elementi comici e che non lasci allo spettatore la certezza che la lettura sia univoca. Anche per questo motivo ci è sembrato giusto provare più di una colonna sonora su questo lavoro. Abbiamo notato che con un vago accenno di melodia o di armonia le cose diventavano immediatamente sdolcinate o stucchevoli, mentre la neutralità della musica permetteva di essere molto estremi dal punto di vista teatrale ed espressivo.
Passando invece ad ALDES, questa rappresenta una vera e propria “fabbrica dell’arte” che accoglie diversi artisti. Nelle ultime produzioni quali Lila di Stefano Questorio o Luce di Aline Nari, lei ha svolto un ruolo di supervisore o ha lasciato che gli artisti lavorassero in autonomia?
Io discuto sempre prima e dopo con gli artisti, mai durante. L’idea è che ognuno deve trovare le proprie parole e il proprio modo per fare questo lavoro, che non è assolutamente semplice. Sono pochi i fortunati che alle prime creazioni già identificano il proprio stile… gli artisti sono per definizione delle figure molto insicure, estremamente fragili e sensibili alla critica. Quest’ultima può essere costruttiva ma anche facilmente distruttiva. Perciò manifesto le mie osservazioni critiche solo quando il lavoro ha assunto una sua forma, perché credo sia importante che si mantenga comunque un’onesta dialettica artistica e culturale al fine di svolgere al meglio il proprio lavoro.
Lei è un artista eclettico. Si è formato come danzatore, oggi è principalmente coreografo e docente, ma in Trattato di economia con Andrea Cosentino si è mostrato al pubblico anche in veste di attore. In quale di questi tanti ruoli si rispecchia maggiormente?
In realtà in nessuno… Sono arrivato alla danza per caso e per sbaglio e se non avessi incontrato Carolyn Carlson probabilmente avrei fatto altro nella vita. Non mi sono mai veramente considerato un danzatore perché ben conscio dei miei limiti e certamente non mi considero un attore, lavoro che neanche mi gratificherebbe. Mi piace invece utilizzare le parole per esprimere un mio pensiero, organizzare dei discorsi in un contesto fatto di persone, di musica e di luci, ciò di cui è fatto il teatro… Mi sento più uno scultore che utilizza tante materie diverse per dare vita ogni volta a opere differenti.
Esiste un argomento sul quale non ha avuto ancora modo di soffermarsi ma che le piacerebbe approfondire e trattare scenicamente?
Tantissimi, anche se risulta stranamente difficile produrre e permettere a un lavoro di girare. Sono anni ormai che medito e che non riesco a far decollare, per motivi personali, un lavoro sul bel danzare… mi piacerebbe costruire per il pubblico una vera e propria macchina di gioia fatta di corpi che danzano. Rispetto alla drammaturgia e alla regia della danza noto da un lato una forte tendenza all’ipertecnicismo, dall’altro una rinuncia quasi totale alla tecnica in favore di un concettualismo a volte un po’ raccogliticcio/disordinato. Invece ho come la sensazione che ci sia un universo immaginativo che potrebbe aprire spazi di gioia estetica… spazi nel semplice danzare senza pregiudizi formali o scolastici che possono essere indagati e dare anche dei risultati gratificanti.
Maria Rosaria Visone
Contenuto pubblicato nell’ambito del workshop di scrittura critica a cura di Stratagemmi e Teatro e Critica, in occasione di Invito di Sosta 2019, rassegna curata dall’Associazione Sosta Palmizi.