nella versione di Davide Carnevali
uno spettacolo di Sandro Mabellini
visto allo Spazio Tertulliano di Milano _ 10-22 gennaio 2012

È tornato a Milano Davide Carnevali, il drammaturgo trentenne espatriato tra la Catalogna e la Germania, con un fresco passato nei vivaci ambienti teatrali argentini. Lo Spazio Tertulliano ospita, fino al 22 gennaio, la sua riscrittura della Dodicesima notte di Shakespeare, progetto che ha debuttato a settembre in seno al Festival Quartieri dell’Arte di Viterbo.
Come tutti i testi che portano la firma di Carnevali visti finora, anche questa variazione shakespeariana funziona, per impianto drammaturgico, poetica e forza della scrittura. La vicenda dell’amore inseguito e mai consumato tra il cupo conte Orsino e la ninfetta schizzinosa Olivia, condita da naufragi, travestimenti, feste, scambi di coppia e momenti di malinconia amorosa-esistenziale, è questa volta riambientata nell’Italia del berlusconismo in fase crepuscolare, tra orge con minorenni, dure leggi sull’immigrazione, derive dittatoriali e un generale smarrimento che ben rende l’atmosfera dell’originale shakespeariano. Solo che nel testo del XVI secolo questa abbondanza e con-fusione era una posa, una maniera: il modo in cui l’autore codificava un genere, quello della commedia (o come vi piace chiamarlo, così recita il titolo), e poi lo forzava per parlare dell’essere umano e della sua anima multiforme e sfaccettata, fatta di gioie e tripudi, ma anche di solitudini e incomprensioni.
Nella riedizione di Carnevali, invece, il delirio delle trame intrecciate e non del tutto sciolte, la schizofrenia dei personaggi e la loro difficoltà a tenere sotto controllo pulsioni e desideri diventano metafora di un paese che va alla deriva, isola (in)felix dove «quello che sembra plausibile non sempre è plausibile. E viceversa. Si lasciano aperte un po’ tutte le possibilità. È il corso naturale delle cose, siamo in democrazia», come dice il capitano a Viola appena sbarcata in un’immaginaria Lampedusa.

Quando il testo venne presentato per la prima volta, il Cavaliere era ancora al governo.  Oggi che Berlusconi è stato messo da parte, qualche brivido in più corre per la schiena riascoltando quelle storiacce di escort e minorenni: abbiamo davvero guadato il fiume? Ci ricascheremo?
Il gioco drammaturgico regge bene, il passo doppio tra storie private e cosa pubblica va spedito e Carnevali conferma quelle doti di analisi e ironia nella lettura della contemporaneità che già aveva mostrato nel suo testo originale “Come fu che in Italia scoppiò la rivoluzione e nessuno se ne accorse”.

L’onestà, la limpidezza della scrittura e le musiche dal vivo (omaggio alla struttura originale della commedia, nella sofisticata e pressoché perfetta interpretazione del duo I signori G.) fanno il resto, andando a comporre uno spettacolo vivace e furbo, dove i giovani attori in scena hanno abbondante materiale su cui lavorare per divertirsi e divertire lo spettatore. Sono otto, per quindici personaggi. Si scambiamo i ruoli e si rincorrono, per non perdere nemmeno un tempo. E non è facile, perché la scrittura di Carnevali è serrata, chiede impegno e capacità di prendersi in giro senza mai smettere di prendersi sul serio. Si difendono bene gli uomini, le due new entries nella compagnia Fabrizio Martorelli (Sir Toby, il capitano e Antonio) e Mirko Ciotta (Malvolio), bravo anche Umberto Petranca (Orsino-Berlusconi), già premiato con l’Ubu under 30 per Angels in America. Se la cavano con scioltezza anche le tre ragazze (Chiara Verzola, Alessandra Mattei e Caroline Pagani), forse nel complesso meno incisive dei loro alter ego maschili.
Irreprensibile Giulia Zeetti: canta, balla, recita nei panni di Feste, il giullare rognoso che riflette sulle condizioni dell’artista (non ai tempi di Shakespeare, ma oggi). Brava e bella: il talento perfetto per uno spettacolo nato da una mente talentuosa, che speriamo di veder ritornare sempre più spesso in Italia.
Infine, due note di regia: da tagliare un paio di brani musicali, soprattutto verso la fine, o l’effetto magico di note soavi inventate con flauti sudamericani e maracas cristalline finisce per stancare. Il finale parla già da solo: il coro appesantisce, non chiude. E poi, la masturbazione di Olivia. L’autoerotismo non è cosa facile per le scene. Può essere sublime o del tutto inutile.

Francesca Gambarini