Intervistiamo uno dei più giovani e affermati drammaturghi islandesi, Tyrfingur Tyrfingsson, che ci sorprende subito per la sua grande chiarezza. Prende spunto dalle nostre domande per approfondire con sicurezza alcuni temi del suo lavoro drammaturgico: il particolare legame fra personaggi e ambientazioni; dove finisce la testualità e dove comincia la produzione teatrale; il sottile legame con le grandi saghe islandesi; come ogni personaggio abbia contemporaneamente un’anima adulta e una infantile. Questi elementi sono affrontati nei suoi testi sia con rigore sia con libertà, qualità che riemergono quando ci parla di un artista che lo accompagna nella scrittura, Arturo Benedetti Michelangeli, il celebre pianista italiano che Tyrfingsson stesso definisce “disciplinato” e “pazzo” allo stesso tempo.

Di  Tyrfingur Tyrfingsson abbiamo recensito Blue Eyes (2018), The Potatoe Eaters (2019), Helgi Comes Apart (2020) per il nostro focus sulla drammaturgia islandese

Quale ruolo rivestono le ambientazioni nelle tue opere? E come ti aspetti che i registi interpretino le tue indicazioni riguardo lo spazio? 

Dico una cosa innanzitutto riguardo alla regia: il testo può appartenere a me, ma la sua messa in scena appartiene ai registi e ai loro attori. Lo scorso lunedì sono cominciate le prove del mio ultimo testo, Seven Fairytales of Shame, che debutterà al Teatro Nazionale d’Islanda a febbraio. Per tutto il giorno mi sono sentito come se stessi consegnando i personaggi nelle mani degli attori e del regista. È questo il momento in cui sento che il testo non è più mio. Ed è un grande sollievo, una dolce euforia. 

Ora, per rispondere alla vostra domanda: un personaggio, per me, può vivere solo fuori dalla scena. La scena è come una gabbia, il personaggio è l’animale che sta dentro e noi siamo spettatori di questa cattività. Quindi quello che mi aspetto dal regista e che, anzi, esigo da questa figura, è che approcci ai miei testi come un vero artista. Voglio che abbia coraggio, che ami districarsi nelle difficoltà, che unisca i puntini, che interpreti le mie parole. E lo stesso mi aspetto dagli attori. Concepisco la mia drammaturgia come un invito, non come un puzzle o un cruciverba, lo scopo non è trovare la soluzione ma accettarlo come una verità. Quando scrivo io non visualizzo le scene. Le sento, le ascolto. E credo che sia questo il punto di contatto tra me e chi mette in scena i miei testi con la propria visione. Sono sempre stato molto fortunato, perché ho visto ottime messe in scena dei miei lavori. 

Louise Bourgeois, Father and son (study), 2005

Nei tuoi testi  alcuni grandi temi classici si manifestano in una chiave post-moderna. Ad esempio la “colpa” che sembra trasmettersi di padre in figlio o la “vergogna”. Da quali fonti prendi ispirazione e come approcci a queste grandi tematiche?

A volte mi sento come se appartenessi a una scuola (nello stesso modo in cui una drag queen appartiene a una cerchia, come quella della Davenport, ad esempio). Nel mio caso sarebbe la “casata” di Wagner, Brecht e forse Tony Kushner. Il mio modo di scrivere è stato anche molto influenzato da Genet e Fassbinder. E sarei disonesto se non menzionassi anche la TV americana, che io considero come teatro su schermo: Frasier era pura farsa, I Soprano un dramma shakespeariano e Arrested Development un capolavoro post-moderno. Un altro mio riferimento è lo scrittore islandese Guðbergur Bergsson, che io ammiro molto. Attingo anche dalle saghe popolari islandesi, in particolare quella di  Njála. Danno quel tocco considerato “greco”, nel senso di “tragico”, che ogni tanto viene ravvisato nei miei testi. E vi posso assicurare che le saghe islandesi non sono meno tragiche di quelle greche. 

In ogni caso, io non stabilisco mai un argomento attorno al quale scrivere. Di solito capita che dopo molto tempo che una mia opera è stata messa in scena, qualcuno mi fa notare l’attinenza con un tema, o mi capita di leggere in qualche critica che “questo o quello” sono tematiche che mi caratterizzano. Potrei ribattere semplicemente che sono interessato alla colpa e alla vergogna perché sono due sensazioni che creano dipendenza. Non le allontaniamo, perché in realtà le apprezziamo e perché, talvolta, ce ne nutriamo.

Berlinde De Bruyckere, Pietà, 2007

Nella tua drammaturgia ricorre il conflitto generazionale, ci puoi raccontare perché lo utilizzi così spesso?  

Le persone spesso si lamentano di quanto sia triste che così tanta gente sia stata privata dell’infanzia, a causa di violenze o di altri traumi. Ma quello che a me interessa, invece, è il fatto che molte persone siano state derubate della possibilità di diventare adulte. Nelle mie opere questa eredità viene resa drammatica e conflittuale: una madre è contro sua figlia, un figlio è in lotta con il propio padre. Diventano generazioni in guerra. Ma in realtà ciò di cui sto parlando è la battaglia interiore tra la mia parte adulta e quella infantile. Proietto il dramma che mi attraversa sui personaggi. Quando guardo alla mia generazione, vedo tantissimi adulti-bambini e gran parte dell’età adulta andata sprecata. Forse è una caratteristica islandese? Non lo so, non credo.

Un immaginario cupo, buio e a tratti punk viene alla luce durante la lettura dei tuoi testi. C’è una canzone con cui potresti sintetizzare tutto questo? 

Mi piace la vostra scelta di parole: “venire alla luce”. Stefán Jónsson, che ha diretto alcuni dei miei lavori, mi ha detto una volta che la luce (e la lotta per arrivare ad essa) è una delle protagoniste silenti nelle mie opere. Di solito ascolto molto Philip Glass mentre scrivo, ma di recente mi sono appassionato al vostro conterraneo Arturo Benedetti Michelangeli. Ascolto la sua versione di Debussy e guardo il video nel quale suona il Concerto per Piano di Ravel insieme all’Orchestra Sinfonica di Londra, diretta da Sergiu CelibidacheE lui è così esilarante, disciplinato, folle e rigoroso allo stesso tempo.

Riccardo Corcione, Carlotta Pansa Tolja Djokovic

immagine di copertina: Maurizio Cattelan, Charlie don’t surf, 1997, Torino, Castello di Rivoli – Museo d’Arte Contemporanea


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