progetto di Tindaro Granata
dalle parole di Tommaso Guarino
Visto a Milano nell’ambito di Stanze_7 ottobre 2016
Contaminazioni fra arte e vita; poesia che palpita in colori e memorie. Sono elementi ad alto tasso emotivo quelli che ci regala La memoria che vedi, progetto del giovane e dinamico Tindaro Granata (Premio Mariangela Melato 2013 – direttore artistico dell’associazione Proxima Res) realizzato nell’ambito della rassegna Stanze, presso la casa-atelier del pittore Tommaso Guarino. In questa sorta di pellegrinaggio laico, gli spettatori sono guidati in un primo momento da Francesca Porrini, simpatica “ancella del ricordo” nei panni di una domestica rumena che ha familiarità con il luogo. Si tratta di una casa un po’ magica, nido accogliente della vita discreta e speciale di un “artista umile e poco serio”: così almeno ama definirsi lo stesso Guarino, che arriva in salotto con aria timida, ma generoso e felice di accogliere gli ospiti.
Ha perso quasi totalmente la vista, ma ciò gli permette di vedere meglio dentro di sé e nel suo ricco mondo interiore: un universo sicuramente coloratissimo, come testimoniano gli splendidi quadri appesi alle pareti. Tindaro Granata gli carezza teneramente il braccio, gli pone domande che sono la miccia per innescare il ricordo, e poi lo indirizza verso un nuovo capitolo, mentre il racconto si dipana seducente, ramificato e imprevedibile. L’affabulatore Guarino ha già portato le sue storie sul palco (ad esempio nel 2012 “Faccia scura” al Teatro Officina), ma ora siamo a casa sua: è in questa dimensione intima e di complicità che riscopriamo l’emozione di ascoltare un aedo antico e contemporaneo.
È un raccontare dove torna più volte l’atmosfera dell’infanzia trascorsa a Eboli, un mondo pieno di sole, di frutti lucenti e cibi saporiti, popolato da “scugnizzelli” birbanti che marinavano la scuola e da una folla di donne forti come la memorabile fornaia, grassa e tonda quanto due elefanti, che chiedeva aiuto al piccolo Guarino per lavarsi in una vasca enorme. Il filo della memoria si impregna allora di un profumo di pane e dolci per poi soffermarsi sugli occhi e gli sguardi di altre presenze femminili: vecchiette golose in una gelateria, una dama che seduce un trapezista, una figura che si anima dal quadro o una bimba immigrata che contempla la nevicata di formaggio grattugiato sui maccheroni fumanti. Mentre parla, Guarino “dipinge” dettagli e atmosfere, con la commozione di chi rievoca tempi lontani eppure ancora vivissimi.
Mentre il pittore resta in casa ad accogliere il secondo gruppo di spettatori, il progetto di Granata prevede una catabasi: si scende in cantina, guidati da una donna in bianco (Mariangela Granelli), un alter ego femminile di Guarino che racconta frammenti della vita avventurosa del pittore. E mentre ci accompagna si ha l’impressione che si tratti di una sorta di Virgilio uscito dal mondo pittorico di Guarino, venuto a guidarci e a conoscere le creature del pittore. Comincia a sollevare e presentarci i quadri accatastati nel piccolo vano, dipinti su tavole di compensato: donne in abiti bianchi, neri, rossi, con turbante o cappellino, sdraiate o sedute con le braccia in grembo, stringono ventagli e mazzi di fiori. Le storie narrate forniscono indizi che sembrano animare le figure: forse sono serve, pastorelle, zingare, fornaie, accomunate da un’elegante maestosità. Poche pennellate scabre e colori corposi tracciano bocche serrate e grandi occhi dolenti, pervasi di una dolcezza misteriosa, una sapienza ieratica e ancestrale, che ricorda le icone bizantine e gli enigmi esotici di Gauguin. La fantasia di ognuno può interpretarle come vuole: dalle dita di una figura, cola del rosso, chissà, forse è Medea. Un’altra regge fra le mani un mazzo di rose, oppure quelle macchie sono prugne, tulipani, melograni, ed è semplicemente lei a chiamarsi Rosa? E forse profuma di bontà e di pane, il profumo dolcissimo che porta con sé la nostalgia straziante di una figura materna a lungo desiderata.
Si esce da questo antro di polvere e colori con un forte senso di dolcezza e malinconia. Siamo abituati a pensare alla Memoria come al fine, alla meta da conquistare, in un rito di ri-appropriazione e di ri-costruzione continua. Il progetto di Granata indica invece un itinerario di semplicità, attraverso lo sguardo che si posa sulla bellezza. Dapprima, nell’intimità del suo salotto, l’aedo-pittore ci introduce alla tavolozza della memoria, ridipinta con le parole del ricordo personale; poi siamo guidati alla scoperta del suo harem di arte poetica, composto di tasselli di vita, colori e profumi. Ora la Memoria è lì che ti guarda, pronta a prendere vita. Basta tenere aperta la porta alla bellezza, come continua a fare il generoso pittore, sempre disponibile al dialogo con il mondo.
Gilda Tentorio