reading tratto dall’omonimo romanzo di Magda Szabò
con Maria Paiato e Maria Pilar Pérez Aspa
visto a Milano al Teatro Atir Ringhiera_12-15 gennaio 2017
Tutto è racchiuso nelle mani. Mani che scrivono su una macchina e, di fronte, mani che preparano da mangiare. Con questi gesti si apre il reading tratto dal romanzo La porta di Magda Szabò, in cui da subito si svela la lontananza tra lo stile di vita delle due protagoniste, la scrittrice Magda e l’anziana domestica Emerenc. Una distanza radicale che tocca l’aspetto fisico, aggraziato e aereo, di Magda, roccioso e saldo, di Emerenc, e l’eloquio, colto e ‘borghese’ nell’una, secco, ruvido e pieno di silenzi nell’altra. La religiosa scrittrice, amante dell’arte e attenta alla politica, ma inadatta al vivere quotidiano, sembra destinata a non incontrarsi mai con l’iconoclasta domestica, antintellettuale, avversa alle regole e ostile a ogni forma di autorità, compresa quella dei suoi datori di lavoro.
Ma un’insperata amicizia giunge a colmare distanze che parrebbero insanabili. Un cambiamento che passa innanzitutto dai movimenti del corpo: la riservata e selvatica Emerenc, una sempre eccellente Maria Paiato, attraverso la progressiva liberazione delle mani, all’inizio nascoste con disagio dietro la schiena, dà corpo all’apertura all’altro, svelando, oltre la porta della sua casa una generosità inaspettata. Il mistero che si nasconde dietro le mura è un mondo pulito e ordinato: la vita di nove gatti, abbandonati e salvati dall’anziana donna, il pudore e la cura che riserva alle memorie sofferenti e inaccessibili del popolo ungherese e della sua famiglia segnata da perdite, abbandoni e aspirazioni frustrate.
La sofisticata scrittrice (ben restituita da Maria Pilar Pérez Aspa), ammaliata da questa scontrosa “folle della misericordia”, accoglierà Emerenc e grazie a lei conoscerà la sapienza di un “padre carpentiere ed ebanista, che sapeva tante cose” scoprendo una vita fatta di instancabile lavoro, necessario per realizzare il desiderio di dare memoria alla sua famiglia in una grande, bella tomba.
Tuttavia Magda si dimostra inabile ad attraversare la scomoda profondità di questo sentimento di amicizia; la cultura che possiede non le permette di accedere al mestiere di vivere (e morire) conquistato con fatica e ora custodito da Emerenc. La scrittrice arriverà a violare la porta dietro cui Emerenc ha deciso di consumare in silenzio e in coraggiosa solitudine il suo ultimo tempo, perché non è più in grado di essere con gli ultimi.
Nello spalancare quel voluto abbandono del mondo – lo stesso mondo che aveva dimenticato lei, la sua famiglia, la storia del suo popolo, i nove gatti – e nel mostrare la putrida decomposizione che lo accompagna (la casa di Emerenc è ora sudicia), Magda non ha rispettato il volere dell’amica, l’ha tradita e così l’ha irrimediabilmente perduta.
A quello che nel romanzo è un “tovagliolo”, che Emerenc solleva per coprire il viso e “proteggersi” dallo sguardo di Magda e dalla “vergogna” che prova, la Paiato sostituisce in modo incisivo la mano, strumento della fatica di una vita e allo stesso tempo del dare. La mano diventa così la nuova porta, questa sì priva di serrature da poter aprire, che Emerenc frappone senza mistero fra se stessa e il tradimento dell’amica.
Il gesto finale della Paiato, di grande forza espressiva come il frequente sedersi, o meglio lo stare piantata nella sedia, nelle radici dell’energia “sovrumana e quasi inquietante” di Emerenc, è il punto d’arrivo di un reading in cui le due attrici, pur nella riduzione all’essenziale dei movimenti scenici, non dimenticano il corpo, che portano in modo convincente ed evocativo nei colori e nei sensi delle parole.
Raffaella Viccei