La maggior parte delle istituzioni sa come comportarsi se un fatto improvviso interrompe i loro programmi, ma una pandemia è territorio nuovo per tutti. Quella che ci viene richiesta ad oggi è una metamorfosi obbligata e necessaria: il nostro modo di rapportarci al mondo si sta già modificando e, forse, sono proprio creatività, immaginazione e resilienza intrinseche al teatro a poter dare una mano. E non semplicemente in senso figurato. Il ruolo delle arti è sempre stato quello di fornire ispirazione, anche e soprattutto durante le crisi, e le organizzazioni culturali, i festival, gli operatori dello spettacolo si stanno già organizzando per capire cosa possono offrire in quello che è stato più volte definito un “tempo sospeso”, dove presenza fisica e movimento, requisiti propri dell’arte teatrale, ci sono negati.

È in questo contesto che abbiamo discusso con Francesca Mainetti e Valeria Battaini di Teatro19 e Daniele Gatti della Compagnia Laboratorio Metamorfosi/Teatro19 tra i promotori del festival Metamorfosi, saltato proprio a causa del virus.

Il tempo passato – la prima volta a teatro

Il festival sarebbe dovuto andare in scena dal 28 febbraio all’8 marzo e si sarebbe sparso nella città come semi portati dal vento. Una diffusione che voleva anche essere un ripensamento dei rapporti tra cittadini, tra salute mentale e comunità, tra teatro e mondi altri. In tempi di quarantena siamo però fermi e così le domande che nascono sono molte. Il teatro è necessario? Quando riesce a “contagiare” le persone e a farsi portatore sano di cambiamento?L’annullamento della sesta edizione di Metamorfosi è stato improvviso, ma Teatro19 non si è lasciato scoraggiare e ha lanciato su Facebook #spettatore0, un’iniziativa per invitare le persone a raccontare la loro prima esperienza da spettatori e il momento in cui sono stati “contagiati” dall’amore per il teatro. «In tempi di cultura costretta all’angolo, ci teniamo a sfruttare i nuovi media per riflettere sul senso del teatro nella nostra società», scriveva Valeria Battaini nel post di presentazione di questa campagna. Noi abbiamo rilanciato la domanda a loro, per tornare all’origine, alla radice, alla causa prima.

Francesca Mainetti: «Ricordo una replica a cui ero stata portata al liceo: era al Teatro Grande di Brescia. Lo spettacolo? L’uomo dal fiore in bocca di Pirandello. Non era stata tanto la messa in scena a emozionarmi, ma quella sensazione che ho scoperto più avanti essere la stessa sia quando ti trovi sul palco che in platea. Sentirsi in un mondo ovattato di velluto rosso con quelle luci, quei fari che ora non si usano più, capaci di creare un’atmosfera unica. Poi si è aperto il sipario e ho sentito un odore strano che non saprei dire, di assi, polvere, vestiti e persone. Mi ha completamente conquistato: da quel momento ho deciso sarebbe stato il mio futuro».

Valeria Battaini: «Penso a due episodi in particolare. Il primo è lontano nella memoria: ero molto piccola e i miei genitori mi portarono in quello che sembrava il sotterraneo di una casa privata. Era un teatro enorme – forse proprio perché ero piccola – e per me fu una sorta di avventura. Mi sentivo privilegiata, era qualcosa di magico. Il secondo riguarda le superiori, avevo quattordici anni, una professoressa mi aveva dato un brutto voto per un tema sull’ipocrisia nella società e il mascheramento, che avevo messo in relazione con le maschere pirandelliane. A me quel tema piaceva molto e decisi, con alcune amiche, di trasformarlo in un monologo teatrale. Creammo le scenografie, una suonava la chitarra, io, con leggins bianchi, monologavo e lì, in quel momento, capii che era ciò che volevo essere».

In tempi di cultura all'angolo e nell'attesa che la situazione si risolva positivamente, Teatro19 non si ferma e sull'onda della diretta di sabato pomeriggio (se vuoi rivederla la trovati su questa stessa pagina) lanciamo un hashtag: #spettatore0Ti invitiamo a raccontare:- quando sei stato spettatore per la prima volta (il primo spettacolo che hai visto e di cui hai memoria) – oppure, se sei artista, chi è stato il tuo primo spettatore- oppure raccontaci quando sei stato "contagiato" dall'amore per il teatro e chi è stato l' "untore" (oppure chi hai "contagiato" tu stesso)Lo puoi fare per iscritto, con un'immagine, con un piccolo video da postare su Facebook (ma anche inviandoci un messaggio vocale) taggandoci e aggiungendo #spettatore0Lo puoi fare anche su Instagram.Lo facciamo perché ci interessa che questi giorni critici siano l'occasione per riflettere sul senso del teatro oggi nella nostra società. Il teatro è necessario?#Teatro19 #Teatro #theatre #covid19 #spettatore0

Gepostet von Teatro19 am Montag, 2. März 2020

 

Il tempo sospeso – durante la quarantena

Come cittadini di un paese democratico in tempo di pace abbiamo imparato a dare per scontate certe libertà civili, come quella di circolazione e assembramento. Improvvisamente, però, ciò che pareva impossibile è diventato possibile. Ci siamo resi conto, con incredulità, che il godimento di questi diritti può essere limitato. Un rapporto congiunto OMS-Cina aveva definito le misure adottate nel paese come “lo sforzo di contenimento di una malattia più ambizioso, rapido e aggressivo della storia”. Secondo lo stesso rapporto “gran parte della comunità globale non è ancora pronta, nella mentalità e materialmente, per attuare le misure che sono state attivate per contenere il COVID-19 in Cina”. Lo Stato italiano, pronto o meno, ha abbracciato almeno parzialmente questa politica fin dal 23 febbraio 2020, con l’attuazione del Decreto legge n.6. E il mondo della cultura è stato tra i primi a rendersi conto della situazione. Ciò di cui il decreto ci ha privato non solo lo davamo per scontato, ma ordinava il nostro tempo. Per chi lavora nel mondo del teatro, quello della scena è uno spazio-tempo aperto che si trasforma e dilata accogliendo tutte le possibilità immaginative, le relazioni sociali, le riflessioni individuali. E sono proprio immaginazione, socialità e pensiero critico a rendere vivo e presente il teatro. Viviamo in tempi di sospensione e le conseguenze di questo blocco, nel fragile settore culturale, hanno e avranno conseguenze profonde. Dunque come può il teatro, in questo contesto, farsi strumento realmente in dialogo con la collettività? Questa stessa collettività è preparata al cambiamento?

F. M.: «L’annullamento del festival è qualcosa che non ti sembra possibile possa accadere. Quindi no, non eravamo pronti per questo cambiamento. Ci vuole moltissimo lavoro per organizzare un evento come Metamorfosi, o qualunque altro momento culturale. Per noi il festival è necessario in quanto è la nostra principale relazione con il pubblico. Non avendo infatti una stagione né un teatro, viviamo di fatto il nostro rapporto con gli spettatori grazie a Metamorfosi e al progetto Barfly, la rassegna teatrale che connette centro e periferia attraverso un teatro contemporaneo messo in scena nelle piazze del centro di Brescia e nei bar di quartiere. Andrea Porcheddu si era inventato per noi la definizione di “teatro sociale d’arte”: lavoriamo fisicamente fuori, per strada, nei condomini di periferia, in situazioni altre rispetto alla scatola nera, o al foglio bianco del teatro. Da “fuori” possiamo portare “dentro” qualcosa che ci ha cambiato come persone e come artisti, trasformando il nostro linguaggio. Lavoriamo tutto l’anno con gli utenti dei CPS territoriali che fanno parte della Compagnia Laboratorio Metamorfosi, e questo percorso è finalizzato alla costruzione di una relazione tra chi vi partecipa e oltre, con la cittadinanza. Siamo abituati in un “tempo normale” a mettere il lavoro al primo posto: questo tempo incredulo è stato un duro colpo ma ci permette di fermarci e riflettere sul futuro, soprattutto perché è e deve essere un tempo condiviso. Tutte le crisi hanno una loro utilità: l’importante è che non ci si dimentichi di questo momento».

https://mailchi.mp/8575043f3b24/metamorfosi-festival-covid19 parleremo di altre METAMORFOSI

Gepostet von Teatro19 am Montag, 2. März 2020

 

V. B.: «Il festival è sospeso, ma verrà riprogrammato, probabilmente a settembre. Bisognerà però capire la disponibilità collettiva: come evento ha senso solo nel suo insieme, con ogni piccolo seme in relazione agli altri. Il nostro lavoro vuole attivare delle riflessioni dentro e fuori il teatro, dentro e fuori la salute mentale: per noi è dunque necessaria la relazione, il collegamento di queste istanze. Anche la risposta della società alle prime restrizioni dovute al COVID-19 fa riflettere su quanto la salute mentale non riguardi solo i degenti di un ospedale psichiatrico, ma tutti noi. La salute mentale, al pari di quella fisica, è salute. È interessante ragionare sul fatto che le prime attività colpite dai decreti non siano state il commercio o le fabbriche, ma tutti gli eventi aggregativi e i rituali sociali, fossero anche quelli dell’aperitivo. Un fatto che ci pone una domanda chiara: cosa significa essere privati di quelli che sono elementi che fondano la nostra società? Per quanto riguarda il teatro e il mondo della cultura, poi, dovremmo interrogarci se questi siano sentiti ancora come necessari non solo dalla nostra comunità ristretta. Probabilmente sarà il tempo a rispondere. Per una settimana possiamo tranquillamente guardare le serie televisive seduti sul divano, ma dopo un mese? L’uomo è un animale sociale, le persone hanno già oggi voglia di uscire e incontrarsi veramente, faccia a faccia. Che questo tempo sospeso possa permetterci, come società, di capire che il teatro ha un valore reale? Che quando sarà tutto finito – perché finirà – sia necessario valorizzarlo e tutelarlo, anche economicamente? Quando veniamo privati di qualcosa, lo si dice spesso, ci rendiamo conto del suo effettivo valore. Forse questa crisi, come diceva Einstein, maestro della relatività del tempo, può divenire un valore aggiunto».

Daniele Gatti: «In questo momento credo sia veramente necessario ragionare non solo sul teatro nello specifico ma con uno sguardo più allargato. Mi spiego meglio: non ha importanza che non sia andata in scena la mia performance [la Conferenza fantascientifica del Professor Miscuso realizzata con la Compagnia Laboratorio Metamorfosi, Teatro19 e l’UOP23], ma che si riesca a recuperare l’idea di fondo sottesa al progetto. Quella cioè che la città sia un ecosistema in cui convivono esseri diversi dipendenti gli uni dagli altri: è la cooperazione a permettere a tutti gli esseri viventi di sopravvivere, prosperare ed evolversi. Fondamentale è infatti comprendere come la socialità faccia parte della salute, ne sia un aspetto fondante! Uscire di casa e passeggiare sono azioni necessarie per un utente psichiatrico, come per una qualsiasi persona. In particolare, io stesso, che sono utente di un CPS territoriale, ho visto venir meno la possibilità di fare tutto ciò insieme a al gruppo di persone con cui mi trovo abitualmente. Solitamente do per scontata questo tipo di socialità, ora però sto già sentendo la mancanza di quei rituali collettivi a cui ero abituato, come il mangiare insieme e poi andare a teatro. E il problema non riguarda solo gli utenti interni ai CPS, ma anche quelle persone che semplicemente vanno al centro diurno per svagarsi e ora non ne hanno la possibilità».

Il tempo immaginato – il teatro che verrà

Questo cambiamento obbligato ci mette in crisi, ma può esser l’opportunità di una reale metamorfosi. Immaginare un futuro diviene ancora più necessario in uno spazio-tempo di cui non conosciamo ancora né l’estensione né le possibili conseguenze reali, e globali. In questo senso lavorare per un teatro capace di riflettere sulle urgenze della società, in grado di attivare pensieri altri, trasversali, aperti, può essere uno strumento atto al ripensamento a cui siamo chiamati. Al contempo le opportunità a noi offerte dalle nuove tecnologie assumono qui un valore strumentale profondo: rendono possibili rapporti sociali, mostrano ciò che altrimenti non potremmo vedere, ci connettono più di quanto mai abbiano fatto. Ma sentiamo forte la mancanza – fisica innanzitutto. Il pensiero libero, intrinseco all’arte teatrale, può darci nuovo respiro anche attraverso il confronto con l’inesplorato, l’immateriale, il virtuale.

F. M.: «Gli aspetti di socialità di cui parlava Valeria poco fa sono un sintomo di salute. Gli altri mezzi che abbiamo a disposizione possono certo permetterci di stare insieme in un altro modo, virtuale, ma ci stiamo rendendo conto come non siano sufficienti. Il nostro tentativo di condividere con il pubblico quella che sarebbe dovuta essere la parata cittadina di sabato 29 febbraio ha sfruttato questi nuovi mezzi: la parata immaginaria che abbiamo realizzato in diretta streaming si è basata sull’idea di provare a coinvolgere anche un pubblico diverso. Ma non solo. Volevamo far notare che il teatro continua, nonostante non sia visibile fisicamente e che il teatro è un’opportunità incredibile, uno strumento unico d’arte e di relazione. Nell’ambito teatrale, in quello della salute mentale e forse nella società tutta, c’è però un serio problema di struttura: ed è forse proprio in questo contesto che iniziamo a capire che la patologia non è delle persone, ma è della struttura stessa, da cui dipende poi il nostro modo di relazionarci. Ed è con questa consapevolezza che il mestiere teatrale, in particolare attoriale, diventa fondamentale: si fa cassa di risonanza di pulsioni anche piccole, di fragilità, di possibilità di immaginare e innovare noi stessi, i nostri linguaggi, la nostra collettività. È fondamentale scoprire dentro di noi qualcosa che non controlliamo e arrivare vicino a quel limite. Forse questa situazione che stiamo vivendo, come nell’esperienza teatrale, può avvicinarci a quello stesso limite permettendo alla struttura e agli individui che la compongono di accorgersi della necessità dell’arte, della cultura, di fantasia, immaginazione e sperimentazione».

V. B.: «Per quanto riguarda nello specifico la parata, va ricordato che avrebbe coinvolto circa 150 persone. Non avremmo potuto certo realizzarla in questa situazione, ma l’abbiamo comunque raccontata anche con l’aiuto della poetessa bresciana Maria Zanolli, che ha permesso a Roberta Moneta di creare la drammaturgia, quasi esclusivamente in poesia. La decisione di realizzare la diretta è stata presa perché per noi era importante tentare di far immaginare al pubblico ciò che sarebbe potuto essere. In un certo senso non far vedere quello a cui gli spettatori avrebbero potuto partecipare, bensì raccontare ciò che le persone si perdono “normalmente”. Da notare anche il fatto che il mezzo digitale ci ha permesso di raggiungere un pubblico più ampio rispetto a quello che avremmo coinvolto dal vivo. Molte persone a teatro non vanno, ma allo stesso tempo possono essere interessate ad altro, ad esempio alla costruzione drammaturgica, all’aspetto relazionale, al backstage. Questo può permetterci di immaginare come utilizzare ogni mezzo nel suo modo specifico, per le sue particolari potenzialità. Lo strano momento che stiamo vivendo stimola la fantasia: noi stessi non avevamo mai sperimentato questo tipo di comunicazione. Quando recupereremo Metamorfosi dal vivo penseremo anche a questo aspetto finora trascurato.

Camilla Fava