Pubblichiamo l’introduzione al volume “I Quaderni del FIT” 2020 che, a partire dagli spettacoli dell’edizione del 2020 del Festival Internazionale della del Teatro e della Scena contemporanea, riflette sul tema ella perdita, tanto sulla scena quanto nella realtà.

Nel corso del 2020, l’anno del COVID, il tema della morte è passato da una marginalità quasi censoria al centro dei pensieri e dei discorsi, privati e pubblici. Quello che è spesso stato un tabù, non solo è diventato notizia centrale della nostra realtà più vicina, ma si è portato dietro riflessioni ben più ampie sul tema della fine. L’incapacità di controllare il virus, il modo in cui ha distorto il nostro quotidiano, l’impossibilità di progettare un futuro hanno fatto scaturire visioni apocalittiche: le catastrofi umane e ambientali del nostro pianeta, prima percepite lontane, nello spazio e nel tempo, si sono improvvisamente avvicinate alla sensibilità di tutti.

In questo tempo alterato è stato ripensato il programma, già in fieri prima dell’esplosione della pandemia, del FIT Festival 2020 (settembre-ottobre 2020): gli spettacoli che hanno composto il cartellone finale, tutti nati prima del COVID, hanno acquisito nel contesto completamente mutato nuovi significati. Il Festival Internazionale del Teatro ha dovuto rivedere la sua programmazione e rinunciare ad alcune delle presenze internazionali previste prima dell’esplosione della pandemia, ma la direzione artistica ha saputo gettare luce sui cardini fragili di un’era di trasformazioni epocali.

Visti a qualche mese di distanza, con il tempo di sedimentazione e rielaborazione che si interpone sempre tra la fine del Festival e la pubblicazione dei “Quaderni del FIT”, gli spettacoli sembrano fare emergere con chiarezza temi e aspetti del performativo che hanno a che fare con alcune questioni centrali per la società di oggi, cioè la metabolizzazione della perdita e l’elaborazione del lutto.

Questa pubblicazione cerca di depositare su carta alcuni di questi aspetti, dividendosi come di consueto tra le riflessioni intorno al Festival e sguardi più ampi: i contenuti sono l’esito della visione degli spettacoli e della condivisione intorno ad essi di pensieri e ragionamenti nei giorni del FIT, dal 29 settembre all’11 ottobre 2020, da parte del gruppo dei “Quaderni” di quest’anno, composto, oltre che da Renato Palazzi, Maddalena Giovannelli e Francesca Serrazanetti, dal drammaturgo Riccardo Favaro, dallo studioso di arti performative Tancredi Gusman, dal teologo Jonah Lynch e dalla giornalista Tiziana Conte. Le linee principali che si sono delineate partono dalla riflessione intorno al tema della morte e, in modo più ampio, della fine, per trovare una loro estensione in termini prettamente performativi: la fine della rappresentazione, la fine del testo drammatico, la fine della presenza dell’attore in scena. Il termine fine, il superamento degli statuti canonici, arriva a segnare una ripartenza, dentro e fuori dalla scena. Per includere i molti livelli delle nostre riflessioni, che hanno spaziato dai contenuti degli spettacoli fino ai loro linguaggi e significati, abbiamo intitolato questo volume «La scena della perdita» a segnalare come ciò che abbiamo perduto sia già diventato un potente materiali scenico.

Un’ultima annotazione, prima di passare ai contenuti di questi “Quaderni” 2020, riguarda il fatto che siamo arrivati al quinto volume di una serie: cinque anni di riflessioni condivise tra il gruppo stabile dei Quaderni e i partecipanti delle singole edizioni, seguendo il pensiero e la visione di Paola Tripoli e Carmelo Rifici. «Le scritture del reale», «Il politico è osceno», «Vite che (non) sono la mia», «Violenza e potere», «La scena della perdita»: a guardarli a posteriori, i titoli di queste piccole pubblicazioni ci sembrano mettere in evidenza una continuità di lettura della scena teatrale contemporanea che speriamo possa guardare ancora lontano.

Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti


MATERIALI: VIATICO ALLA LETTURA

Il teatro, in questo tempo di pandemia, ha dovuto riscoprire una vocazione antica eppure smarrita: farsi spazio pubblico per l’elaborazione del lutto per una comunità che ne è stata privata. Condividiamo, come viatico alla lettura del volume, alcuni passi di Lutto e Melanconia di Sigmund Freud (1917), qui nell’edizione di Cesare Musatti, pubblicata da Il Saggiatore. Nello scritto Freud distingue tra una condizione di non elaborazione (la melanconia) e la normale reazione alla perdita (lutto). Il ruolo della collettività per passare dall’una all’altra condizione appare cruciale; in questa prospettiva, la funzione del teatro ci sembra più che mai fondamentale.

Ritratto di Sigmund Freud (1856 – 1939) nel suo studio di Vienna, nel 1930 (© Getty Images)

«Il lutto è invariabilmente la reazione a una perdita di una persona amata o di un’astrazione che ha preso il suo posto. Il lutto profondo implica la perdita di interesse per il mondo esterno, l’avversione per ogni attività che non sia in rapporto con la memoria. In cosa consiste il lavoro svolto dal lutto? La normalità è che il rispetto della realtà prenda il sopravvento. Questo compito si porta avanti un poco alla volta e con grande dispendio di energia, e può risultare straordinariamente doloroso.

Anche la melanconia può essere la reazione alla perdita di un oggetto amato. In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale. Può darsi che l’oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d’amore (è il caso, per esempio, di una una persona amata abbandonata). In altri casi ancora riteniamo di doverci attenere all’ipotesi di una perdita di questo genere, ma non sappiamo individuare con chiarezza cosa sia andato perduto, e a maggior ragione possiamo supporre che neanche chi soffre riesca a rendersi conto coscientemente di quel che ha perduto.
Chi soffre è consapevole della perdita nel senso che egli sa quando ma non cosa è andato perduto in lui. Saremmo quindi inclini a connettere in qualche modo la melanconia a una perdita oggettuale sottratta alla coscienza, a differenza del lutto in cui nulla di ciò che riguarda la perdita è inconscio. Il melanconico ci presenta una caratteristica che manca nel lutto: uno straordinario avvilimento del sentimento di sé, un enorme impoverimento dell’Io. Nel lutto il mondo risulta impoverito e svuotato, nella melanconia impoverito e svuotato è l’Io stesso.

Va detto subito che anche il normale lutto supera la perdita dell’oggetto e, finché dura, assorbe anch’esso tutte le energie dell’Io. Perché dunque, esauritosi il lutto, non si verifica neppure lontanamente la condizione necessaria all’instaurarsi di una fase di trionfo? È impossibile dare una risposta immediata a questa domanda. Grazie a questa però ci rendiamo conto di non riuscire neppure a indicare i procedimenti con cui il lutto porta a termine il proprio compito; tuttavia una congettura potrà forse servirci in questo frangente. In relazione a ciascuno dei ricordi e delle aspettative che dimostrano il legame con l’oggetto perduto, la realtà pronuncia il verdetto che l’oggetto non esiste più, e l’Io, quasi fosse posto dinanzi all’alternativa se condividere o meno questo destino, si lascia persuadere a rimanere in vita, a sciogliere il proprio legame con l’oggetto annientato. Possiamo forse supporre che quest’opera di distacco proceda in modo talmente lento e graduale che, una volta espletata, anche la quantità di energia psichica necessaria a realizzarla si sia esaurita. Nell’Io, la lotta riguardo all’oggetto della perdita agisce come una ferita dolorosa che pretende un controinvestimento straordinariamente elevato».

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