di e con Marta Cuscunà
visto al Teatro Verdi di Milano_ 15-24 Marzo 2013

Si può essere innovativi utilizzando i modelli consolidati della tradizione? Si direbbe di sì, guardando l’ultima fatica di Marta Cuscunà, talento emergente della scena italiana, già vincitrice, nel 2009, del Premio Ustica per il teatro. Il modello è quello del teatro di narrazione. In particolare la “giullarata” di Dario Fo e di Eugenio Allegri, con quel gusto, tutto italiano, di dare vita a infiniti personaggi con la sola postura del corpo, piuttosto che con l’intonazione della voce. È un genere molto frequentato – ne sono piene le cronache – e nonostante questo la Cuscunà non sembra volersi distaccare troppo dal repertorio. In una scena spoglia, senza scene di sorta, Marta racconta la sua storia con curiosità e parsimonia, senza il concorso di video, luci o effetti speciali. Potrebbe trovarsi in un qualunque altro posto, in una piazza piuttosto che in un palcoscenico improvvisato, e l’effetto non cambierebbe.

Dove sta, allora, l’originalità dell’operazione? Due sono le risposte. Nel testo, innanzitutto. La friulana Cuscunà attinge ad una storia che conosce bene. O, per lo meno, che la riguarda da vicino: la battaglia delle monache del monastero Santa Chiara di Udine, che nel Cinquecento reagirono alle convenzioni e alla cultura maschile imperante trasformando il convento in un centro di resistenza e libero pensiero, alternativo ad un mondo in cui nascere femmina era ancora avvertito come una disgrazia.
Ci sono molti testi che parlano dell’argomento: la Cuscunà li studia a fondo, le opere di Arcangela Tarabotti e Lo spazio del silenzio di Giovanni Paolin in particolare, mescolandoli coi racconti, le memorie, i segni imperituri di una storia vera. E lo fa con coraggio e determinazione, accumulando dati senza il concorso della retorica, sempre esimendosi dalla tentazione dell’insegnamento tout court.
La seconda novità sta nel teatro di figura. Per rappresentare la condizione delle clarisse vengono usati dei pupazzi. Molto buffi, a vederli, così da lontano, con quegli occhi grandi, sgranati, i corpi tozzi o secchi, allampanati, come fossero modellati da un Messerschmidt. La Cuscunà li anima uno ad uno, li accosta, li allontana, sempre variandone la voce, la postura, imprimendovi a forza tutte le emozioni, le paure scaturite dal colloquio con l’Inquisitore, quasi fossero un coro ante litteram. E, così facendo, quasi impercettibilmente, lascia scivolare la narrazione, quella ereditata dalla tradizione, verso direzioni altre, impreviste e imprevedibili, dove è lecito meravigliarsi, come dinanzi ad uno spettacolo per bambini. Se poi il tutto viene condotto con estro e fantasia, anche grazie all’innegabile talento di quest’attrice deliziosa, così fresca, così spontanea, ci si accorgerà di quanto, al termine della performance, il genere sia mutato. Dall’interno. E senza clamorosi colpi di scena.

Roberto Rizzente