di Elsa Morante
regia e scene Mario Martone
visto al Teatro delle Muse di Ancona_ 4- 7 Aprile 2013
All’inizio era il coro. Era nell’orchestra del teatro greco, in cui danza, musica e parola davano voce e corpo alla città, simbolicamente rappresentata dai coreuti e realmente presente sulle gradinate del teatro, dove sedevano i cittadini.
All’inizio de La serata a Colono, magistralmente messa in scena da Mario Martone, è il coro, ma nessuna orchestra lo racchiude. Un’arcana forza centrifuga lo disperde, moltiplicandolo in frammenti caleidoscopici di un delirio che, man mano, sembra comporsi nel corpo semi-immobile di Edipo. Da qui il coro vaga e qui torna, come quando intona la stralunata canzone, ironicamente disperata e vibrante, una delle più belle creazioni di Nicola Piovani in questo spettacolo.
Il “coro dei ricoverati” fa la sua apparizione entrando in sordina dai lati del teatro, si insinua tra gli spettatori, li disorienta, li accerchia; trascina il pubblico, tra maliarde manie, verso Edipo – perché solo il coro riesce a comunicare davvero con la sua colpa – e verso l’epilogo del viaggio.
“L’ultima sua stazione predestinata, dove trova una fine e una sepoltura, è Colono, luogo consacrato alle Furie figlie della Notte”, così scriveva la Morante nell’Antefatto de La serata a Colono, dall’emblematico sottotitolo Parodia. L’unico testo teatrale della scrittrice, pubblicato nel 1968, è una sublime contaminazione, come si desume dalle Note, tra l’Edipo a Colono, la Bibbia, antichi canti atzechi, l’Inno dei Morti ebraico, i Veda, l’Hölderlin dell’Edipo re, della Morte di Empedocle, della poesia Abbitte, un “vecchio blues di forzati”, e altro, detto e non, tra cui il finale dell’Edipo re di Pasolini e Simone Weil.
Martone, tenendo fede al testo, colloca la Parodia “in un corridoio attiguo al reparto Neuro-deliri” di un ospedale degli anni ’60, dove domina un cromatismo bigio e livido, interrotto dal bianco del lenzuolo-sudario che avvolge Edipo e del maestoso cappello a due ali della suora. L’odissea dell’anziano sessantatreenne (Carlo Cecchi) è giunta al termine; cinghie di contenzione tengono il corpo ormai inchiodato ad una barella mentre garze insanguinate coprono gli occhi. Questo “piccolo proprietario benestante … vedovo con 4 figli”, in preda a una dominante mitomania parodistica di Edipo e a deflagranti allucinazioni è in vario modo tenuto a bada da tre guardiani menefreghisti (Victor Capello, Vincenzo Ferrara, Totò Onnis), da un algido dottore (Rino Marino), da un’ingannevole suora (Angelica Ippolito). Di lui ha sincera cura solo la figlia quattordicenne, Antigone (Antonia Truppo), che ha sul volto “i segni dolci e scostanti delle creature di mente un poco tardiva”. Padre e figlia sono l’uno l’antitesi dell’altra, sono l’ipostasi di un universo schizofrenico che il parlare aulico, denso di parossistiche citazioni letterarie di Edipo e quello popolaresco, dialettale, sgrammaticato di Antigone restituiscono bene.
Carlo Cecchi dà una strabiliante voce monocorde al plurilinguismo di Edipo, che trascina dentro di sé tempi e culture distanti; si fa straordinario Edipo, cioè turbamento, autodistruzione, tragedia della coscienza che si sdoppia: “siamo due in uno, io – LUI”, riferendosi al Sole da cui giungono al figlio di Laio la schiavitù della colpa e i mali che lo hanno reso pazzo; sa essere convincente portatore di una memoria culturale che un tempo aveva tenuto in vita il piedegonfio ma, oramai ingestibile, può solo condurre alla fatale caduta.
Perfetto è, infine, il modo con cui Cecchi ha saputo comprendere e far sentire reale la sola cosa che Edipo stesso sa certa e vera, il dolore, che è avvertito dal pubblico anche nella dimensione fisica, frutto della fatica dell’attore nell’essere quasi bloccato da cinghie per un’ora e mezza. Altrettanto indimenticabile l’interpretazione di Antonia Truppo-Antigone, per l’incantata liricità, la salvifica smemoratezza e la forza vitale e selvatica che, teneramente, cerca di seguire e consolare le scomposte fughe mentali del padre. Toccante è il gesto reiterato della mano che accarezza con grazia la testa inquieta di Edipo e tenta di farla riposare sul cuscino durante il colloquio con i tre guardiani che, nella dissociazione paranoica dell’uomo, diventano il Cerbero tricefalo dell’Ade. Bello lo sguardo puro che si spalanca oltremisura, perché gli occhi di Antigone devono vedere anche per quelli di Edipo quando chiede “Che c’è laggiù?” e Antigone risponde con una poetica menzogna “Quella è una bella funtana di statue con la illuminazione elettrica anniscosta che fa l’acqua di tanti belli colori!”.
Su tutti – attori, musicisti e pubblico – si innalza, ad un tratto, in un trionfo sfacciato di luminosità, la sfera del dio Sole, sapere visionario contro cui inveisce Edipo e attorno al quale si muovono con le loro nevrosi, fino a tentare improbabili scalate, i sette del coro. La potente luce che il disco sprigiona diventa anche un mezzo efficace per far intuire allo spettatore, che prova un indiscutibile fastidio agli occhi, il dolore fisico dell’accecamento di Edipo.
Il sole si spegne. Le maniacali allucinazioni del vecchio re di Tebe continuano ad aggrovigliarsi in un crescendo che si placa con l’arrivo della suora/Giocasta/Ismene. Angelica Ippolito rende molto bene questo ambiguo personaggio ipocrita, sdolcinato, viscido, ingannatore, soprattutto quando offre a Edipo assetato e morente una letale bevanda che dà assenza di memoria.
Sciolto dalle cinghie, le braccia inutilmente libere, Edipo ha allucinazioni uditive che gli indicano le sette porte – numero delle porte di Tebe e dei folli sapienti del coro -, disposte lungo la scala che conduce alla morte. Le sette porte della percezione, con i loro colori e sinestesie, si aprono una ad una e danno adito a parole antiche, quelle scritte da Hölderlin per l’amata Diotima, “Di questo cupo dolore nascosto nella vita tu da me troppo hai saputo”. Differente è il senso, ma anche ne La serata si celebra una separazione che è il Coro a sancire, ultima voce come negli epiloghi della tragedia greca. Ma questa è un’analogia parziale con il teatro antico o addirittura apparente perché il coro finale de La serata è diverso dal coro “dei ricoverati”: è il Coro “della voce di Edipo”, della sua amplificazione sonora preconizzata dalle casse acustiche, sul palco fin dall’inizio dello spettacolo.
L’Edipo della Morante, al pari dell’Edipo di Sofocle, sparisce, ma l’Edipo moderno sceglie un luogo inimmaginabile per l’eroe sofocleo, la porta del Vuoto, oltre la quale intelletto e memoria si dissolvono per sempre.
All’oscura, enigmatica fine di Edipo risponde la parola limpida e certa urlata da Antigone “Pa’! Paaa’! Paaaa’!”, parola viva – come Antigone – sulla lapide di Edipo a Colono.
Non sapremo mai quali voci e gesti avrebbe avuto La serata di Vittorio Gassman o quella di Carmelo Bene e Eduardo De Filippo, rimasti solo desiderata.
Di certo il legame elettivo tra Morante e Cecchi ha prodotto, a 45 anni dalla pubblicazione del testo, un allestimento indimenticabile, tale anche grazie alla partecipazione di alcuni protagonisti del Granteatro, ad altri attori di talento, alla musica di Piovani che si inserisce nello spettacolo come necessaria perché in grado di far sentire un altro linguaggio del dolore, della poesia, della folle memoria in magnetico e sapiente dialogo con le altre modalità espressive in scena.
Infine, Martone. “E’ il testo più misterioso e inafferrabile mai avuto tra le mani”, ha dichiarato a proposito de La serata “indefinibile già nella forma, trattandosi allo stesso tempo di un monologo, un poema, una commedia, una tragedia, un melodramma, una drammaturgia da grande avanguardia del ‘900, un testo dalla struttura poetica precisa ed implacabile alla quale ci si deve affidare ad occhi chiusi”. Per questa complessità la regia ha saputo trovare intelligenti ed emozionanti chiavi di lettura e di resa scenica, facendo tesoro anche della pregressa ricerca teatrale sull’Edipo sofocleo (Edipo re del 2000; Edipo a Colono del 2004). Al termine de La Serata si esce dal teatro come dalla porta del Vuoto. Nelle orecchie, la Babele di linguaggi; negli occhi, il sangue memore di Edipo, la pura vitalità di Antigone, la Luce che rende ciechi per vedere altro e, finalmente, per dimenticare.
Raffaella Viccei