di Ettore Oldi e Silvia Napoletano
«“Anna Sergjevna morde il fazzoletto.” Ora tu mi fai vedere come si fa a mordere un fazzoletto». Un attore sfida un’attrice nel disperato tentativo di lei di riportare in vita Padri e figli di Turgenev. Una gestualità antica, insieme ai costumi e agli elementi scenografici, suggeriscono un tempo lontano in cui si parla una lingua che non conosciamo più. Il corto teatrale firmato da Ettore Oldi e Silvia Napoletano procede, una sferzata dietro l’altra, come uno scontro duro e tenace; la goffaggine di lei nell’atto di mordere il fazzoletto di stoffa (qual è l’ultima volta che ne abbiamo visto uno in circolazione?!) è solo la punta dell’iceberg. Una pioggia di giustificazioni contro le aspre contestazioni dell’attore sull’attualità del romanzo ottocentesco, apre un gioco metateatrale in cui il teatro torna a mettere a tema se stesso, per discuterne il senso nel nostro presente. Quali sono i nostri maestri? Come entrare in relazione con chi è venuto prima di noi? E cosa vogliamo dire oggi sul palco? Il tono esasperato della recitazione porta all’interno di questa cornice un bagaglio di pungente e amara ironia. Ma non tutto ciò che è in scena fa pensare al passato. A fare da sfondo allo spazio uno schermo, su cui vengono proiettate proprio le parole del testo di Turgenev. Tuttavia sul palcoscenico non troviamo altro che un insieme di elementi in lotta fra loro: indicazioni registiche e tentativi di recitazione fallimentari, sedie e mobilio antiquato, un tavolo e uno zaino dei nostri giorni, le parole di Turgenev che prima si allontanano e poi si sovrappongono alla condizione degli attori. In un presente pieno di contraddizioni – sembrano dirci gli attori – non si possono lasciare al pubblico risposte certe, ma solo questioni aperte e nodi ancora da sciogliere.
Veronica Polverelli
Un salotto ottocentesco con il suo tappeto e la sua poltrona di velluto rosso sbiadito accoglie il pubblico della Cavallerizza. Per terra due bicchierini e un’elegante bottiglia in vetro di vodka. La ragazza e il ragazzo presenti in scena si sforzano di entrare a far parte di quel quadretto borghese di altri tempi, mimetizzandosi con costumi d’epoca. Solo un enorme telo da proiezione rompe anacronisticamente la finzione visiva, insieme ai numerosi copioni su carta stampata con sgargianti evidenziature che tradiscono un’origine ben più vicina al nostro presente. Quello che ci troviamo davanti è il frutto del tentativo di ridare vita con ossessione filologica a Bazarov e a Anna Sergjevna Odincova, personaggi del romanzo Padri e Figli di Turgenev, gelati in un Ottocento molto distante da noi. Un primo giro di prove dimostra che le battute paiono piene di parole vuote, al limite dell’assurdo, tanto da risultare complessa anche la resa della gestualità, così ben descritta nel romanzo «da sembrare un copione teatrale», ma tuttavia tanto lontana dalla sensibilità contemporanea da risultare ridicola. Il rifiuto dell’attore di proseguire a queste condizioni conduce a un’accesa lite con la collega, da cui emerge la frustrazione comune a molti giovani attori che, di fronte al tramonto dei padri, trovano difficoltà a individuare il proprio ruolo. È a questo punto che, le parole di Turgenev, diventano naturalmente – e imprevedibilmente – esatte a esprimere un sentimento di inadeguatezza transgenerazionale. Sullo schermo infatti le battute del romanzo continuano a scorrere come sottotitoli anche dopo l’interruzione delle prove e vanno a coincidere, senza che gli attori se ne accorgano, con le parole della loro discussione. In questo modo il capolavoro della letteratura russa ribadisce la propria attualità, riemergendo inconsciamente da chi vorrebbe rifiutarlo, ma l’ha interiorizzato a tal punto da servirsene per dar voce al proprio, più initmo, pensiero.
Diego Luinetti