One hundred years of chinese architecture
di Mathias Woo
visto al Teatro Grassi di Milano nell’ambito di Tramedautore

L’architettura è per eccellenza la forma d’arte più difficile da esporre: se un quadro o degli oggetti si possono portare direttamente sul palcoscenico o in un museo, un edificio ha dimensioni troppo grandi per essere mostrato al pubblico nella sua interezza. Proprio per questo fare ricorso al teatro per raccontarne caratteri e storia è un espediente con potenzialità interessanti da esplorare. Lo ha intuito senza dubbio Mathias Woo, architetto cinese attivo come ‘operatore culturale’ tra multidisciplinarietà e impegno politico, e co-direttore di Zuni Icosahedron, un collettivo di artisti indipendenti fondato nel 1982.

Dal 2009 Woo dirige il festival “Architecture is Art”, che pone al centro l’architettura intesa prima di tutto come scienza umana, indagata nel suo rapporto con altre discipline. Un’esperienza unica nel suo genere, che parte dal presupposto che l’architettura sia lo specchio della società e che proprio per questo vada avvicinata a un pubblico anche molto eterogeneo. Come racconta lo stesso Woo in un’intervista rilasciata a Stratagemmi, “il festival esplora diverse forme di architettura intersecandosi con la danza, le installazioni, la musica. Il presupposto da cui partiamo per curare il programma è l’individuazione di connessioni di diverso genere: partendo da un approccio storico, piuttosto che trasponendo l’architettura in una ricerca linguistica e formale”.
One hundred years of chinese architecture, presentato a Milano in apertura di Tramedautore, fa senz’altro parte della prima categoria. Lo spettacolo ripercorre la storia della Cina attraverso le trasformazioni della sua “faccia” costruita e nello specifico attraverso il contrasto tra le sue due anime: da una parte la crescita urbana incontrollata che insegue un ideale di modernità globalizzata, e dall’altra il legame con la tradizione e la stratificazione dell’identità storica.

Questo duplice sguardo passa attraverso le vicende di due coppie che hanno fatto la storia dell’architettura del XX secolo in due fasi successive. Si parte dall’oggi con Zhang Xin e il marito e socio Pan Zhiyi, imprenditori del settore immobiliare alla cui iniziativa imprenditoriale si devono alcune grandi trasformazioni del paesaggio urbano cinese, e si arriva all’inizio del secolo con Liang Sicheng e Lin Huiyin, che insieme hanno lottato per fondare una cultura architettonica moderna basata sulla conoscenza del proprio patrimonio e sulla conservazione dei monumenti. Nel mettere in scena la contrapposizione tra queste esperienze Mathias Woo racconta il passaggio da una città “politicizzata” a una “commercializzata”, e la perdita di un’identità nazionale fondata su cultura e memoria.

La prima parte dello spettacolo è quindi un polemico inno alla commercializzazione, che denuncia con sarcasmo l’attuale equiparazione dell’architettura a merce. Soho China – la società di Zhang Xin – parte da un’idea di “Small Office Home Office” (questo il significato dell’acronimo) per diventare in breve un’impresa milionaria. La società è la più importante promotrice delle New Towns, pianificate imponendo una nuova “cultura della comunità”, importando modelli occidentali e riconoscendo nella commercializzazione lo strumento necessario per preparare “il terreno di crescita per l’arte dell’architettura”.
Con un conto alla rovescia che ripercorre all’indietro 100 anni di storia mondiale, si arriva al 1911, nascita della Repubblica Popolare Cinese. Liang Sicheng aveva dieci anni e di lì a poco sarebbe andato a studiare negli Stati Uniti per poi girare l’Europa e rientrare in Cina, fondare l’università di architettura e dedicarsi, insieme alla moglie, alla causa della “ricostruzione” della Cina.

Nonostante la cura delle luci e l’attenzione alla gestione spaziale del palcoscenico siano evidenti, lo spettacolo è basato sulla parola più che su soluzioni visive e scenografiche.
Un’impostazione che si distacca da quanto ci si sarebbe potuti aspettare dall’autore. Per Mathias Woo, come lui stesso ci racconta, il ruolo del regista è prima di tutto quello di gestire lo spazio: “in teatro si ha a che fare con uno spazio tridimensionale, non solo con attori. Solitamente l’attenzione si concentra sul performer: io sperimento il palcoscenico come fosse un personaggio, e indago come il performer può interagire con i cambiamenti provocati dall’uso della luce e dei linguaggi multimediali”. Un approccio, questo, sperimentato nella trilogia dedicata proprio ai maestri dell’architettura moderna: Looking for Mies, The Life and Times of Louis I. Kahn e Corbu sono esempi di un teatro “multimediale e musicale”. La componente visiva è particolarmente approfondita nello spettacolo su Mies van der Rohe in cui l’astrazione di linee, luci e superfici sembra rappresentare esplicitamente il linguaggio formale dell’architetto tedesco.

In Cento anni di architettura cinese, le storie personali e pubbliche delle due coppie sono raccontate per passaggi rapidi, come si trattasse di due lunghe interviste/conferenze destinate a sostenere due opposte idee di architettura. I cambi di scena avvengono con lo spostamento di pochi elementi semplici (mattoni, qualche sedia, un tavolo) e le proiezioni video si limitano a supportare la narrazione con uno scorrimento analogo a un passaggio di slides nel corso di una conferenza. Dal punto di vista visivo la scelta delle immagini e del colore punta a contrapporre il kitsch iper-contemporaneo (immancabilmente contaminato da un gusto orientale) a una sobria eleganza di inizio secolo. Le fotografie dei complessi urbani SOHO e delle ville di lusso del progetto Commune by the Great Wall – premiato alla Biennale di Venezia nel 2002 per la “audace iniziativa personale” della committenza – si affiancano, nella prima parte dello spettacolo, a drappeggi rossi e titoli di borsa. Le architetture tradizionali – non solo monumenti, ma anche edifici popolari e residenziali, quel “tessuto urbano” su cui la cultura architettonica italiana si è per decenni fortemente interrogata – sono invece presentate accanto ai ritratti degli intellettuali di un tempo. L’opposizione dei due modelli è verbalizzata tramite due concetti richiamati in modo ripetuto nel testo: al legame tra “commercializzazione” e “promozione dell’arte dell’architettura”, perversione della contemporaneità, fa da contraltare l’antica indissolubile triade vitruviana di utilità, durabilità e bellezza. Concetti universali che faticano a trovare un terreno comune nella Cina di oggi ma nei quali, nel bene e nel male, ogni paese può riconoscersi. E come recita una battuta del testo, “L’architettura, come tutto, è solo un mezzo. Ciò che conta è l’atteggiamento iniziale, la tua idea. Che venga espressa costruendo un edificio, scrivendo o facendo cinema, non fa molta differenza.”

Francesca Serrazanetti