di Emma Dante

Visto al Crt di Milano _ 15 Febbraio-6 Marzo 2011

«Una terna di testi che amo moltissimo, che ho elaborato in un anno e mezzo e che è lo sviluppo di un mio percorso di dieci anni, incentrata su tre condizioni umane, in ombra perché danno fastidio: la povertà, la malattia e la vecchiaia». Ecco, in una rapida battuta di Emma Dante, la storia e i temi di fondo della Trilogia degli occhiali, l’ultimo spettacolo dell’autrice e regista palermitana, in cartellone fino al 6 marzo al Crt. Si tratta di tre testi (già apparsi a stampa presso Rizzoli a inizio anno) nello stesso tempo autonomi e strettamente connessi. Autonomi perché si propongono come tre quadri staccati, tre figurazioni perfettamente autosufficienti: tanto è vero che sono già stati portati in scena separatamente. Ma sono anche tre parti di un medesimo polittico, tenuto insieme – oltre che dal sottile escamotage degli occhiali, che tutti i personaggi inforcano e nevroticamente si mettono e tolgono – dal tema, variamente declinato, della marginalità. Tanti occhiali per tre storie minime, tre storie di disperazione e nel contempo di gioia, nelle quali le lenti sono l’emblema della difficoltà a vedere, a capire e a stare nel mondo, ma anche lo strumento grazie al quale i personaggi tentano di leggere, vivere e amare la vita.

Il primo pezzo è Acquasanta: «è il più scritto, più orale, ed è per un solo protagonista affabulatore» (Emma Dante), che però si scinde in tre diversi personaggi, tre uomini di origini napoletane che girano il mondo su una nave: un mezzo-mozzo, un marinaio e un capitano. E infatti l’acqua benedetta a cui allude il titolo è quella del mare, del quale il protagonista, ’O Spicchiato, è follemente innamorato. Questo mezzo-mozzo solo al mondo, che ha passato tutta la sua vita in mare, si sgola gridando: «’O mare è la ragazza mia… io ti amo», non senza trarne le più estreme conseguenze: «’a terraferma non ci credo, è ’n’illusione» (eppure, considerato sempre più matto e pericoloso, verrà infine cacciato dalla nave e condannato a rimanere a terra). Insomma, ’O Spicchiato è uno scimunito maltrattato dai suoi compagni e dalla vita, ma capace di provare – forse anche in virtù della sua condizione di reietto – una gamma vastissima di emozioni, dalle più ingenue e bizzarre alle più sublimi. Per questo, il suo allucinato monologo può contenere passaggi di alta liricità, in cui la fa da padrone una sorta di tensione “leopardiana” all’infinito (e non a caso Leopardi è chiamato in causa dalla stessa Emma Dante), declinata nell’invincibile passione per il mare, il suo silenzio, i suoi interminabili spazi. Momenti lirici allo stesso tempo sfigurati ed enfatizzati dal dialetto, assunto – come in tanta poesia del secondo Novecento e dell’ultimo decennio – a lingua artistica per eccellenza, libera com’è dalla banalizzazione e dalle incrostazioni dell’italiano tecnologico e consumistico.

Decisamente meno scritto è il secondo atto della trilogia, Il castello della Zisa, nel quale viene meno la lingua napoletana in viaggio per il mondo di ’O Spicchiato: siamo invece trasportati in una silenziosa, e solo allusa, Palermo. Lo scena, formicolante di movimenti, ha luogo in un ricovero per disturbi mentali: due suore-infermiere si aggirano sul palco isteriche e iperattive, in perfetta opposizione al catatonico Nicola, che cercano di svegliare alternando commosse preghiere e funambolici giochi da circo. E Nicola a un certo punto si sveglia, ma solo per pochi istanti. Se nella prima milanese il ragazzo gridava alcune battute alludendo implicitamente alla propria tragedia, quella di essere stato «strappato alla zia nel quartiere popolare della Zisa dove viveva davanti a un favoloso castello» (sono parole della regista), nelle serate successive a Nicola è stata sottratta la possibilità di quel breve sfogo verbale: rimangono solo la sua entusiasta corsa per il palco e l’altrettanto rapido mutarsi della gioia in angoscia, fino al rinnovato torpore. In questo modo, il contrasto con la prima parte, così piena di canzoni e di voci, cheap cheap viagra risulta più schietto e dà vita a un quadro d’insieme più variegato; ma non tanto da celare le sotterranee analogie. Una su tutte: in entrambi i casi al dolore di una condizione marginale è legata in profondità una genuina e viscerale passione per la vita.

La terza parte, Ballarini, cambia ancora le carte in tavola, tuttavia aggiungendo un tassello congruente col disegno complessivo. Intriso di melodie come il primo e quasi del tutto affrancato dalle parole come il secondo, è l’atto più narrativo. È capodanno, due anziani afflitti da una vecchiaia che li rende letteralmente decrepiti stanno, noiosamente e meccanicamente, festeggiando. All’improvviso un carillon e un velo da sposa danno il via alla rievocazione della loro storia d’amore, sullo sfondo di una colonna sonora che va da Tenco a Mina, da Morandi a Bobby Solo. Come sempre nel teatro di Emma Dante, il più delicato e raffinato dei sentimenti si sovrappone alla più bassa e schietta materialità, il massimo dell’astratto coincide col massimo del concreto. E allora anche la memoria diventa corpo: i due si trasformano, a poco a poco tornano giovani e vivono a ritroso la loro vita insieme: i balli scatenati e il primo bacio, la dichiarazione d’amore e i figli, fino alla morte. In sintonia con gli altri quadri della Trilogia degli occhiali, anche qui la più cupa amarezza e la più sfrenata vitalità si fondono e creano un’unica raffigurazione fatta di espressionismo vernacolare e acuti sondaggi psicologici, di barocco del Sud e briosa ontologia da “operetta morale”. Un contrasto che altro non è, pare suggerire Emma Dante, che quello della vita.

Luca Daino